11 aprile 2000

Guggenheim di Bilbao, gigantismo americano d’importazione

 
Progettato per ospitare si e no cinquecentomila visitatori l'anno, il museo a dodici mesi dell'apertura (ottobre 1997) ne aveva attirati un milione e quattrocentomila. Introito: 40 miliardi di lire. E un indotto di diverse centinaia di miliardi, secondo alcuni pari allo 0,5 per cento del prodotto interno lordo dell'intera Città basca.
Perché? Affrontiamo il tema da un’ottica un po’ particolare

di

Ottobre 1997, viene decretata la fine dell’interesse dei media per l’architettura.
Al suo posto si inserisce una nuova attività che vede un’operare ravvicinato tra arte moderna-pop ed ingegneria.
Passata la sbornia da dibattiti post-moderm, fatta di requisitorie zeviane e fredde repliche aldorossiane, il panorama del dibattito architettonico si trova in una fase di stallo. Un business fatto di riviste, giornali, avvenimenti, expo rischia di entrare in piena crisi se non trova un argomento valido di discussione.

Siamo ormai negli anni novanta e due potrebbero essere le strade da percorrere. Una rappresentata dalla promozione culturale di un fare bio-eco-energetico, vedi Roger o Foster, l’altra, più comoda, reclamizzare come nuova frontiera dell’architettura l’azzeramento di ogni sintassi mediante l’importazione in toto dei codici già elaborati nel campo delle arti figurative, vedi il gruppo dei Site.
Tra le due rotte da seguire, prevale la seconda, la quale lascia comunque spazio alla prima soprattutto se volta agli stessi intenti, cioè, colpire l’opinione pubblica, avvicinarla al mondo architettura.

Bilbao è una città orgogliosamente basca, con un’amministrazione desiderosa di farsi conoscere e che comunque conosce i problemi dell’insediamento urbano post-industriale.
Molto si è fatto e si sta ancora facendo per annullare l’impatto delle vecchie infrastrutture per rigenerare l’abitato, per migliorare la qualità ambientale del loro fiume, il Nerviòn.
Manca solo un manifesto.

Gehry, è un architetto senza più legami con il modo classico; non è proteso a dialoghi con il passato neanche con il sorriso sulle labbra. Esalta i materiali poveri, come la lamiera o la rete metallica, caratteristici del vecchio mondo industriale. Ha un linguaggio compositivo non retorico. Rappresenta bene quel terapeutico grado zero dell’architettura proclamato da Bruno Zevi.
I marmi con gli ironici accostamenti fucsia del museo di Stoccarda di Stirling, di gusto post moderno, sono archeologia intellettuale.

Questa è la ragione di tanto successo? Analizziamo ora la cosa termini leggermente polemici. Proviamo a parlare di gigantismi americani.
1885 New York. L’America si celebra con un gigantismo: la statua della libertà, una figura di gusto ellenistico, riesce a diventare metafora di una nazione che vuole crescere.

1927-41 Colline Nere, South Dakota, vengono scolpiti, su un intero versante montuoso, i volti dei presidenti. Il potere democratico degli Stati Uniti ha così una sua iconografia.

Due esempi di sfida allo huge ai quali segue in continuità, a mio avviso, l’opera di Bilbao. Gehry ispirandosi alla scultura italiana dei primi 900, in particolare Boccioni, trasporta un concetto formale di stampo modernista ad una scala urbana e territoriale. E’ l’immagine di un potere senza pomposità, aperto al nuovo.
Basta ingrandire a dismisura e l’icona nazionalista si sostanzia. Il programma di disegno Catia, per l’ingegneria aerospaziale e l’impresa costruttrice fanno il resto.
Gigantismi per celebrare, forse è questa la chiave di lettura giusta. E nella storia delle società umane ne abbiamo molti.
Forse questo grande spettacolo la volevano un pò tutti, Gehry, l’amministrazione, i Guggenheim e anche il pubblico.

Riflettendo:

  • il tanto auspicato grado zero, nel linguaggio espressivo, non è altro che mutuare in architettura l’avanguardia del primo novecento,
  • il senso dell’opera è nell’essenza conforme a quello dei coloriti fuori-scala americani.

    Mi fermo per un momento ed inizio a pensare a quegli ottocentomilioni di africani, alle megalopoli povere, alle loro lamiere, alle loro reti metalliche.
    Poi cerco di immaginare una conseguenza positiva per loro che possa nascere dagli atteggiamenti intellettuali quali un’architettura che prende in prestito l’arte, i gigantismi, il titanio e…non so voi, ma non la trovo.



    Frank O. Gehry
    l’agence de l’architecte, Los Angeles
    arc en rêve centre d’architecture
    Entrepot7 rue Ferrère
    F-33000 Bordeaux
    http://www.arcenreve.com/
    email: info@arcenreve.com


    Francesco Redi

    [exibart]

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