21 settembre 2004

Lo scandalo Flick a Berlino

 
Le colpe dei padri ricadono sui figli, come da copione. Difficile imbiancare un passato macchiato da crimini e misfatti. Anche se a compierli è stato un avo ormai defunto. A Berlino arriva la collezione Flick, ed è di nuovo polemica. Quando un nome diventa un peso che non si evita, un’ombra che non si può scansare…

di

Friedrich Christian Flick, detto “Mick” Flick, è un ricco industriale tedesco, residente in Svizzera. Nonché uno dei più grossi collezionisti d’arte contemporanea al mondo. Il suo patrimonio include circa 2.500 opere e una quantità di autori d’eccezione: Paul McCarthy, Bruce Nauman, Martin Kippenberger, Marcel Duchamp, Alberto Giacometti, Gerhard Richter, Franz West, Cindy Sherman, Pipilotti Rist… solo per citarne alcuni. Un cospicuo pezzo di storia dell’arte contemporanea, tutto nelle sue mani. Mani non troppo “candide”, come gli rinfacciano in tanti: è grazie a una sordida dote che Flick ha costruito nel tempo i suoi tesori.
Il nonno, Friedrich Flick Senior, fu prima sostenitore del NSDAP, poi responsabile per gli armamenti durante il regime nazista: era uno che produceva granate e aerei da combattimento per Hitler, uno che schiavizzò 40.000 ebrei, costringendoli a condizioni di lavoro disumane. Nel 1947 il tribunale di Norimberga lo condannò a sette anni di detenzione per crimini di guerra. Tre anni dopo aveva già lasciato la sua cella, libero di tornare ai suoi affari e alle ricchezze sadicamente accumulate: in breve divenne uno degli uomini più facoltosi della Germania, edificando un’autentica fortuna. Un’eredità succulenta da spartire tra i vari discendenti.
Il nipote “Mick” fu abile almeno quanto il nonno nel mettere a frutto la sua “fetta di torta”: da ottimo businessman vendette la sua quota per 60 milioni di $ e si dedicò a una serie di scaltri investimenti, costruendo un impero potente e saldo.
Nel 2001 Flick junior propone alla città di Zurigo di affidare all’architetto Rem Koolhaas la progettazione di un museo, destinato ad ospitare la sua preziosa collezione. Il dissenso pubblico è tale da costringere le amministrazioni locali a rifiutare l’offerta. Una mostra temporanea all’ Haus der Kunst di Monaco viene poco dopo cancellata, per le stesse ragioni: opere d’arte comprate con denaro che puzza di sangue ed omicidio, non meritano onore ed accoglienza.
Ma il caparbio, ambizioso Flick non si arrende. Lui vuole il suo Museo, con quel suo nome-spauracchio da riscattare, da portare a testa alta, senza vergogna. Gli eredi non possono scontare le colpe degli avi, la storia non si ferma e l’arte non si può stigmatizzare.
Hamburger Bahnhof
E’ solo questione di tempo: l’accordo non tarda a concludersi e le opere trovano presto una degna dimora. E’ proprio a Berlino che il sogno si realizza, senza nemmeno troppe polemiche di contorno. Peter-Klaus Schuster, direttore generale dei musei berlinesi, è ben lieto di ricevere da Flick i finanziamenti necessari a ristrutturare un padiglione annesso all’Hamburger Bahnhof (sede distaccata della National Galerie): la Rieck-Hallen diventerà la nuova casa della collezione “maledetta”. Il 22 settembre una mostra inaugurerà la nuova sede, con una selezione di 400 opere. A rotazione verrà esposta via via l’intera collezione. Ma rancori e indignazioni non cessano. Salomon Kom, vicepresidente dell’Associazione degli Ebrei in Germania, chiede la sospensione della mostra, e perfino i fratelli di Flick non approvano quest’eccessiva ostentazione, consci di portare un cognome controverso, per molti difficile da digerire. “In ogni famiglia ci sono diversi punti di vista. Io proseguo per la mia strada”: così si difende lui, determinato. E a chi gli rimprovera di non avere mai versato un soldo per risarcire le vittime dell’antisemitismo nazista, ricorda di avere istituito la “Fondazione F.C. Flick contro Xenofobia, Razzismo e Intolleranza”.Martin Kippemberger - Senza titolo (medusa) 1996
Certo è che spuntarla proprio in Germania, la patria del führer, pare quasi una beffa. Ma Berlino è in una condizione economica difficile, meglio non fare troppo gli schizzinosi e accogliere l’allettante offerta.
In fondo si tratta solo di un nome. Le opere non c’entrano nulla, anzi, ben venga un dono così generoso. La questione però è un’altra: quello di Flick non è affatto un “dono”, ma un prestito temporaneo di sette anni, con possibilità di rinnovo. Flick, al termine del periodo concordato, potrebbe riprendersi indietro le opere –che intanto, dopo la lunga permanenza in un importante spazio pubblico, avrebbero acquistato un plusvalore considerevole- lasciando allo stato tedesco solo gli oneri di gestione della nuova ala museale. Verrebbe da pensare allora: se alla base dell’operazione c’è davvero la volontà di offrire al pubblico il proprio prezioso patrimonio, perché non cambiare il nome della collezione, rinunciando all’ostinato e scomodo protagonismo? O perché non pensare a una vera donazione, anche parziale? Sarebbe più facile così per l’opinione pubblica accettare la cosa e non interpretarla come una precisa strategia economica e auto-promozionale. Ma buon sangue non mente: il fiuto per gli affari è un’eredità straordinaria, forse più importante dei denari stessi. Nonno Flick, questo è certo, avrebbe approvato con orgoglio.

helga marsala

*prima immagine: ritratto di Friedrich Christian Flick © DDP


Friedrich Christian Flick Collection Im Hamburger Bahnhof Berino, Hamburger Bahnhof – Museum für Gegenwart 22.IX.04 – 23.I.05 Invalidenstraße 50-51 • 10557 Berlin
Tel (+49 30) 397834-11
Fax (+49 30) 397834-13
e-mail hbf@smb.spk-berlin.de  Web site http://www.hamburgerbahnhof.de/


[exibart]

3 Commenti

  1. Forse bisognerebbe specificare che la foto centrale mostra l’ala destra dell’Hamburger Bahnhof, quando c’era la collezione Marx che non c’entra nulla con quella Flick.

  2. se ogni volta si sottolinea l’origine e la storia della collezione, non è poi strano che la polemica non termini. inoltre è molto arbitrario suggerire addirittura il cambio di nome e polemizzare sulla prassi del prestito delle opere per un periodo di sette anni, quando ormai tutti i musei adottano lo stesso metodo.

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