20 marzo 2006

New British Art, once upon a time

 
La giovane arte inglese non è più tanto giovane. Almeno a giudicare dalle opere in mostra alla Tate Britain, in occasione della Terza Triennale. Lontane anni luce dai letti sfatti di Tracey Emin e dalle mucche a fettine di Hirst. Forse più meditate, ma meno sorprendenti...

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Una riflessione sulla terza triennale dedicata dalla Tate alla “nuova arte britannica” necessita di alcune premesse. In primo luogo la mostra non si presenta affatto, al contrario di quanto riportato nel materiale informativo, come una rassegna dei nuovi sviluppi dell’arte britannica. A differenza delle edizioni precedenti, si tratta piuttosto di una collettiva sorretta da una forte tesi curatoriale, quella della direttrice della Kunsthalle di Zurigo Beatrix Ruf, ma in cui l’arte presentata non è necessariamente nuova (alcune delle opere, come i lavori di Cosey Fanni Tutti e di Marc Camille Chaimowicz, risalgono alla fine degli anni Settanta), gli artisti non sono necessariamente giovani ed emergenti (il più anziano, Ian Hamilton Finlay, è nato nel 1925, e sono presenti nomi noti quali Douglas Gordon, Angela Bullock e Liam Gillick), e le opere non tutte di buon livello.
A rendere la mostra coerente e le connessioni spesso più interessanti delle singole opere, il fatto che siano state scelte come esempi di arte postmoderna.
Tra le pratiche rappresentate vi è la citazione di altre opere d’arte, come nel caso del giovane Scott Myles, che ha ricostruito nel corridoio della Tate un lavoro di Rirkrit Tiravanija; o di Angela Bullock, che rinnova l’installazione di Duchamp Miles of strings, presentata nel 1942 per la mostra surrealista a New York. O ancora di Douglan Gordon, che con Proposition for a Posthumous Portrait, una tra le più interessanti opere in mostra, propone un teschio riflesso in uno specchio ad angolo che mostra allo spettatore un’incisione a stella sulla nuca. In tal modo, non limitandosi a citare il Duchamp fotografato da Man Ray con una rasatura deiRebecca Warren - Installation View - © Tate 2006 capelli con la stessa forma, ma facendosi beffe dell’idea di memento mori e richiamando, non so quanto consapevolmente, l’accostamento specchio/teschio di molti recenti lavori di Rebecca Horn. Con l’aggiunta di una buona dose di ironia.
Più pedissequo il gioco della ricontestualizzazione -e del mutamento di significato ad essa associato- delle riviste porno esposte da Cosey Fanni Tutti, che negli anni ’70 è entrata nel mondo della pornografia per rivelare come tale contesto mutasse il significato della sua immagine e delle sue dichiarazioni. Oppure dei vecchi ritratti femminili acquistati in mercatini delle pulci e aggiornati (?) da Jonathan Monk con una puntina a mo’ di orecchino. Oppure, ancora, della fotografia di un blocco di cemento proveniente dall’Unite d’habitation di Le Corbusier, riutilizzato a Londra come pietra miliare, proposta da Ryan Gander.
Altre opere attestano come nella postmodernità le parole abbiano spesso perso il loro diretto significato, e la possibilità di essere lette e comprese. Siano esse tanto compresse da risultare illeggibili (come accade nel lavoro proposto da Liam Gillick), leggibili correttamente se riflesse in uno specchio (nella scritta che affianca l’installazione di Douglas Gordon), o non dotate di un inizio e di una fine (nel palindromo latino al neon di Cerith Wyn Evans, in cui la frase segue la forma circolare del neon-lampadario). O del tutto mancanti, come nelle frecce segnaletiche di Scott Myles, che rimandano alle tipiche indicazioni turistiche londinesi.
Rebecca Warren espone, nelle sue imperfette figure femminili di argilla, la decostruzione dell’immagine della donna in scultura; Muzi Quawson, con la proiezione di diapositive che documentano la vita di tutti giorni della giovane cantante americana Amanda Jo Williams, certifica la postmoderna incapacità di raccontare una storia che non sia quotidiana, e altrimenti che dal suo interno; il video-cartoon di Payne & Relph racconta con ironia di un personaggio-logo che si aggira in un mondo di segni in cui, detto con le parole di Italo Calvino, “l’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose”.
Cerith Wyn Evans - In Girum Imus Nocte et Consumimur Igni – 2006 – Neon - Courtesy the artist and Jay Jopling / White Cube (London) - Installation View © Tate 2006
Se alcuni lavori, anche se non particolarmente originali, sono dunque efficaci, molti appaiono niente più che la stanca riproposizione del già visto: in particolare viene da chiedersi se era proprio necessario proporre una sezione dedicata al citazionismo in pittura, soprattutto se con lavori del livello di quelli in mostra.
La Triennale vorrebbe mostrare come le pratiche associate al postmodernismo siano attualmente rinvigorite da nuove forme d’arte. Di fatto essa appare più come la prova che tali pratiche sono in alcuni casi tuttora utilizzate tali e quali, pur avendo perso la freschezza che avevano in origine.

valentina ballardini
mostra visitata il 1 marzo 2006


Tate triennal 2006 – New British Art
Londra, Tate Britain (Pimlico)
orario di visita: 10.00-18.00 tutti i giorni
ingresso gratuito
per informazioni: www.tate.org.uk/britain/exhibitions/triennial
a cura di Beatrix Ruf


[exibart]

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