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Scultura, design, architettura. Anthea Hamilton porta alla Fondazione Memmo di Roma un’opera d’arte totale
Arte contemporanea
Con Soft You, fino al 2 novembre 2025 negli spazi della Fondazione Memmo, Anthea Hamilton (Londra, 1978) debutta in un’istituzione romana con un insieme di opere concepito appositamente per l’ambiziosa architettura di Palazzo Ruspoli. Un esordio importante, che intreccia il suo linguaggio visivo e performativo con la complessità simbolica e stratificata di Roma. L’istituzione, nata nel 1990 per iniziativa di Roberto Memmo con un focus iniziale sull’arte antica, dal 2012 ha rivolto lo sguardo al contemporaneo, promuovendo il dialogo tra artisti e contesto urbano. La mostra è curata da Alessio Antoniolli, che la dirige dal 2022, dopo una lunga esperienza a Londra tra Gasworks e Triangle Network, attenta alle pratiche emergenti e agli scambi transnazionali. Il progetto si ricollega idealmente a Othello: A Play, la performance presentata al centro internazionale delle arti DE SINGEL di Anversa l’anno scorso, in collaborazione con la coreografa Delphine Gaborit (Challans, 1979). In quell’occasione, ogni componente, luci, suoni, arredi, persino il pubblico, veniva trattato come materia scultorea, dando vita a un ambiente permeabile, in cui i confini tra identità, ruoli e linguaggi si dissolvevano. A Roma, questa ricerca si traduce in un’ampia installazione: Soft You è un assemblaggio di oggetti, frammenti, immagini e gesti che nel loro insieme generano un’immersione intensa a più livelli.

La frase «Soft you, a word or two before you go» è pronunciata da Otello nell’ultima scena
della tragedia di Shakespeare (1564-1616), poco prima di togliersi la vita. Generale moro
al servizio di Venezia, Otello è un personaggio nobile e valoroso, ma vulnerabile al
pregiudizio e alla manipolazione. Quando scopre di essere stato ingannato da Iago e di
aver ucciso ingiustamente la moglie Desdemona, chiede un attimo di silenzio per
spiegarsi. “Soft”, nel linguaggio elisabettiano, vuol dire infatti “aspetta”, “fermati un
momento”, è un invito alla sospensione, un momento di verità e consapevolezza prima
della fine. L’artista accoglie questo intervallo in un tempo e in uno spazio da abitare. Non
c’è una narrazione consecutiva, ma una costellazione di elementi che convivono, entrano
in tensione, si influenzano a vicenda. Una tensione che è anche fisica: molte opere sono
letteralmente “legate” attraverso la tecnica giapponese dello shibari, “legatura stretta”,
un’arte erotica e performativa basata sull’uso delle corde secondo schemi precisi e
sofisticati. In questa dimensione, però, la legatura si fa anche abbraccio, gesto di cura,
forma di contenimento. Un equilibrio sottile tra vincolo e protezione, tra controllo e affetto.

Al centro dell’esposizione si trova lo scrittoio progettato con l’artigiano-designer Pietroarco
Franchetti (Roma, 1983), legato dalle suddette corde e decorato con un mosaico
realizzato insieme ad Alice Rivalta (Torino, 1985) secondo l’altra tecnica giapponese
rankaku, che prevede l’applicazione di frammenti di guscio d’uovo su superfici laccate.
Attorno a questo nucleo prende forma un paesaggio visivo fatto di paraventi rifrangenti,
collage fotografici tratti da performance passate, una componente olfattiva creata con
Ezra-Lloyd Jackson (Londra, 1991), artista e inventore di essenze, e la presenza
silenziosa dei manichini, gli stessi che accompagnano Anthea Hamilton a ogni apparizione, un pubblico discreto e fedele. Nel mentre, riemergono i motivi ricorrenti come
le farfalle e le legs, gambe femminili modellate sulle proprie, realizzate in materiali diversi,
dal perspex all’ottone, dalla carta al gesso e alla cera, cariche di rimandi alla cultura visiva
contemporanea e al corpo come superficie di proiezione e trasformazione.

Fin dal principio, la pratica di Anthea Hamilton si è dedicata alla scultura, l’installazione e
la performance, soprattutto alla relazione tra oggetti, spazio e sguardo. Le sue opere
bilanciano spesso ironia e rigore formale, come in (Project for a Door After Gaetano Pesce), la porta a forma di fondoschiena che le valse la candidatura al Turner Prize nel
2016, o in The Squash, presentata alla Tate Britain nel 2018, dove performer travestiti da
zucche si muovevano in un universo piastrellato, seguendo una coreografia silenziosa e
ipnotica. In entrambi i casi, lo spazio non è un semplice contenitore ma parte attiva
dell’opera, così come il corpo, che non si dà mai come misura fissa, ma come entità
mutevole, attraversata da codici e trasformazioni. La collaborazione, poi, è un aspetto
centrale del suo lavoro, ne sono esempio i progetti sviluppati insieme a Nicholas Byrne
(Dublino, 1989), con cui condivide una ricerca che intreccia media diversi e immaginari
affini, esposti al Schinkel Pavillon di Berlino nel 2015.
Per Anthea Hamilton, ogni mostra è un’occasione per ripensare le regole del gioco. Le sue
opere non si limitano a occupare lo spazio ma lo attivano, lo mettono in discussione e lo
trasformano. Soft You, il riferimento shakespeariano, ineludibile come Dante per un
italiano, dice l’artista, parla anche di delicatezza. Tra gli archi delle antiche scuderie,
questa diventa una sottile chiave di lettura: ogni dettaglio invita a rallentare, ogni elemento
sembra sussurrare «fermati un momento, ascolta».