18 aprile 2023

Alla ricerca di un’arte potente, gentile, eroica: intervista a Shilpa Gupta

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In occasione dell’inaugurazione della mostra “Visibileinvisibile”, visitabile al MAXXI l’Aquila, l’artista indiana Shilpa Gupta ci parla della sua ricerca tenacemente legata alla libertà

Ritratto di Shilpa Gupta, foto di Shrutti Garg

Con un doppio appuntamento al Maxxi di Roma e L’Aquila, Shilpa Gupta (Mumbai, 1976) torna in Italia dopo la Biennale di Venezia del 2019 in cui aveva presentato due tra le opere più interessanti in mostra: Untitled 2009 e l’installazione For, in your tongue, I cannot fit, un lavoro di fortissimo impatto e contenuto da cui è nata la pubblicazione presentata al Maxxi di Roma il 31 marzo scorso. Il libro nasce con l’intento di condividere la ricerca che Shilpa Gupta e lo scrittore e giornalista Salil Tripathi hanno condotto per diversi anni sul tema della libertà di parola, raccogliendo i testi di poeti che – in epoche e paesi diversi, in tutto il mondo – sono stati perseguitati, imprigionati, assassinati per le loro parole (i proventi della vendita del libro andranno all’associazione “PEN – Writers in Prison”).

MAXXI Roma, presentazione libro For n Your Tongue I Cannot Fit, 31.03.2023, foto Maria Teresa Capacchione

Shilpa Gupta è una delle artiste più importanti della sua generazione a livello internazionale, le sue opere sono state presentate nelle più prestigiose manifestazioni e musei del mondo: Tate Modern, Museum of Modern Art, Centre Georges Pompidou, Serpentine Gallery, Solomon R. Guggenheim Museum, Kiran Nadar Museum, Biennale di Kochi Muziris, Biennale di Gwangju. In Italia, Shilpa Gupta è arrivata già nel 2006 grazie alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo con la collettiva “Subcontingent. Il Subcontinente indiano nell’arte contemporanea” in cui, con l’installazione Blame, ha fatto conoscere al pubblico italiano la sua ricerca incentrata sul significato di identità culturale e di confine, sul modo in cui i poteri forti influiscono sulle comunità nazionali e locali, sull’uso del linguaggio e delle parole.

Il Guardian ha descritto la sua arte comequietly heroic”, ma Shilpa Gupta non ama le etichette, considera piuttosto il suo lavoro “arte di tutti i giorni” e non vuole essere definita un’attivista. Gupta contesta l’esigenza della nostra società di classificare tutto e tutti: per genere, razza, religione, cultura, confini. Anche perché i suoi lavori – in cui usa ogni materiale, suono, fotografia, video, scultura, disegno, nuove tecnologie – assumono un significato anche e soprattutto in relazione all’interazione con il pubblico che li fruisce e che diventa a sua volta narratore. È questa interazione, il significato che assume il suo lavoro per la collettività, che interessa in particolare Shilpa Gupta.

Tutti temi che ritroviamo nella mostra dal titolo visibileinvisibile” (con la direzione artistica di Bartolomeo Pietromarchi e la curatela di Fanny Borel) inaugurata il primo aprile al Maxxi L’Aquila in cui le opere di Shilpa Gupta, in dialogo con quelle di una grande protagonista dell’Arte Povera, Marisa Merz (Torino, 1926 – 2019), creano un ponte tra Oriente e Occidente sui temi del visibile e dell’invisibile, dell’immagine e della parola, del politico e del filosofico. Ed è all’Aquila che l’abbiamo intervistata.

È sempre interessante conoscere il creatore di opere d’arte di cui tante volte abbiamo ammirato la bellezza, la coerenza e la forza del messaggio. Conoscere Shilpa Gupta è ancora più interessante perché la sua delicatezza, la gentilezza, la ritrosia rispetto al protagonismo, sembrano in apparente contraddizione con la potenza della sua arte. In realtà, rendono il messaggio ancora più forte. Del resto basta osservare l’intensità dello sguardo di Shilpa, quegli occhi scuri e profondi che osservano tutto e tutti, per ricordare che siamo di fronte a un’artista “quietly heroic”.

Shilpa Gupta, MAXXI L’AQUILA, dalla mostra visibileinvisibile, foto Maria Teresa Capacchione

I tuoi lavori aprono riflessioni profonde sulla società: al Maxxi di Roma hai presentato il libro For, in your tongue, I cannot fit dal quale è scaturito un dibattito molto importante sulla libertà di parola. Soprattutto in un momento storico così difficile come quello che stiamo vivendo, può un artista non prendere posizione rispetto alle questioni che pongono la politica e la società?

«Vengo da una scuola di arte che ha una grande tradizione di astrazione. Ci sono diversi modi di vivere la propria vita e personalmente ritengo che ciascun artista sia libero di scegliere ciò che scrive, dipinge, disegna. Deve esserci spazio per ogni modo di essere e di fare, io nutro profondo rispetto per tutti. La maggior parte delle persone va al lavoro, cresce, diventa parte dell’intero sistema. Ma anche solo pensare di correre dei rischi scrivendo, rende la tua vita incerta, “anticonformista”. Se diventi un ingegnere è probabile che avrai più certezze, ma essere un artista o uno scrittore o un musicista rende la tua vita effimera. Quindi penso che di per sé, l’atto di scegliere di essere un artista sia già una presa di posizione. Sono diverse le cose che ci modellano e che influenzano il nostro viaggio: il caso, le coincidenze. Ognuno deve avere la libertà di essere come vuole ed essere un artista è davvero un enorme privilegio».

È corretto dire che gran parte delle tue opere sull’esistenza fisica e ideologica dei confini, sulla loro arbitrarietà e le loro funzioni repressive, ha le sue radici nella storia dell’India, nel dolore e nella tragedia della Partizione del 1947?

«Ciò che mi interessa è come le strutture sembrano definire sé stesse e quindi mi interessa l’idea di Stato-Nazione che considera sé stessa come finita. Guardare una mappa dell’India quando sei a Mumbai ti dà un’idea dei confini completamente diversa da quella che puoi fare sul campo quando sei nel Kashmir del nord o ai suoi confini ad est.

Quando guardi qualcosa dal centro risulta molto chiaro, mentre man mano che ti sposti verso i margini, tutto diventa più sfocato. Questo ha a che fare con il potere, con la percezione, con chi è nella posizione di raccontare la storia. Proprio mentre ora stiamo parlando, per esempio, qualcuno sta riscrivendo i testi di scuola.

Poi, d’altra parte, c’è la questione della legalità/illegalità delle aspirazioni. Qualche anno fa ho guidato attraverso l’unica strada asfaltata che porta alla frontiera, nelle terre di confine con il Bengala dove, da una parte all’altra della strada, nei campi, cresceva liberamente marijuana. Questo mi ha portato a realizzare dei disegni con pigmenti di marijuana della enorme infrastruttura di sicurezza che si incontra ai confini con l’India, dai fari, ai registri, ai tre metri di recinzioni metalliche. Esiste una forte contraddizione tra le aspirazioni dello Stato e i suoi rappresentanti».

Shilpa Gupta, MAXXI L’AQUILA, dalla mostra visibileinvisibile, foto Maria Teresa Capacchione

Dopo l’elezione di Narendra Modi nel 2014 soprattutto sui social media si leggevano notizie di professori universitari, intellettuali, scrittori, arrestati e addirittura assassinati. Si leggevano notizie molto allarmanti sulla libertà di espressione nel Paese, ma adesso improvvisamente non si sa più niente. Cosa è successo in India?

«Viviamo in tempi piuttosto particolari, molto orchestrati. C’è una crescente cultura della paura, della coercizione e del silenzio. Molti dei miei amici non sono fiduciosi, ma io lo sono (lo sono sempre!). Solo che potrebbe volerci molto tempo prima che prendiamo coscienza di quello a cui abbiamo rinunciato per inseguire il richiamo dello sviluppo e dello sciovinismo e prima che ci rendiamo conto di quanto abbiamo perso».

Fuori dall’India l’immagine che si ha del tuo Paese è quella di una nazione in grande crescita economica. Del resto dei problemi come, appunto, la libertà di parola e la forte spinta nazionalista del Primo Ministro fondata sul concetto di Hindutva (“Hindu, Hindi, Hindustan”), non si parla quasi mai. In questo contesto non è ancora più importante che voi artisti di fama internazionale facciate sentire la vostra voce?

«Ogni artista fa le proprie scelte, ma la paura è molto reale, non è qualcosa di astratto. Ogni giorno leggiamo della censura nei confronti di giornalisti, comici, rapper – quanti nel campo dei media lavorano sia a riportare i fatti che alla creazione di contenuti, o alla loro divulgazione e interpretazione – e le difficoltà che devono affrontare».

Shilpa Gupta, MAXXI L’AQUILA, dalla mostra visibileinvisibile, foto Maria Teresa Capacchione

Cosa ha significato per te questa mostra al Maxxi L’Aquila ed il dialogo con una esponente autorevole dell’Arte Povera, lontana da te nel tempo?

«Questa mostra è stata per me una grande opportunità per conoscere il lavoro di un’artista leggendaria come Marisa Merz. È davvero un onore esporre insieme a lei, partecipando a un dialogo così sensibile come quello creato dai curatori della mostra, che va oltre i binari del luogo e del tempo e mette in primo piano il linguaggio del fare».

E in quale direzione va il tuo lavoro adesso?

«In questi giorni sto lavorando a un progetto che risale al 2008, tratto dall’opera While I Sleep che riguarda la persistenza delle voci della moltitudine che continuano a farsi sentire mentre le persone al potere dormono. Hai presente il sit-in di Shaheen Bagh e le proteste nei campus di Delhi che poi si sono diffuse in altre città? Durante i sit-in venivano cantate delle canzoni ed una delle più importanti è stata “Hum Dekhenge”. Il testo è stato scritto da Faiz Ahmad Faiz, poeta pakistano il cui poema “Speak, for your lips are free” fa parte del progetto dei “100 Jailed Poets”. Quello è stato un momento veramente speciale perché questa canzone – proveniente dall’altra parte del confine indiano, scritta diversi decenni fa – è stata ascoltata nelle università di tutto il Paese, rappresentando la speranza. Questo mi ha portato a cercare altri momenti di speranza simili e a cercare la risposta alla domanda cos’è l’arte, cosa potrebbe significare ed essere l’arte, sia per l’artista che per coloro che lo circondano».

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