07 dicembre 2023

Egemonie e trasformazioni, Justin Randolph Thompson alla British School at Rome

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Con Justin Randolph Thompson, artista, facilitatore culturale ed educatore, parliamo di egemonie culturali e trasformazioni linguistiche, a margine della sua prima personale in Italia, alla British School at Rome

05. Where the sun of the future rises, Justin Randolph Thompson, 2023, Film still. Courtesy of the artist.

Fino all’8 dicembre 2023, la British School at Rome ospita la prima restituzione di Minted in Enemy Bronze, una pratica filmica decennale e in divenire dell’artista Justin Randolph Thompson, la cui ricerca è stata sostenuta parzialmente con il finanziamento dell’Italian Council 2021. La mostra è la prima personale dell’artista in Italia e include una dozzina di film dedicati al ritrovamento delle storie Nere in Italia. Il progetto include Al Lettore Benevolo, presentato al Museo MADRE di Napoli nel 2022 e They Remain al MUCEM di Marsiglia nel 2023. Il progetto si compone di dialoghi e scambi avvenuti negli ultimi anni con studiosə, artistə e attivistə Nerə in luoghi impregnati di tensione atmosferica.

Thompson, che da due anni è Research Fellow presso la British School at Rome, si avvale di metodologie, storie e ricerche prese in prestito da iniziative quali Black History Month Florence e di The Recovery Plan (di cui è co-fondatore e direttore) ponendo al centro del proprio lavoro la presenza Nera nella storia italiana.

Come è nato il progetto Minted in Enemy Bronze?

«Minted in Enemy Bronze è nato da oltre un decennio di lavoro performativo site specific che ripensa monumenti e nozioni di permanenza nello spazio pubblico, da ampie conversazioni e scambi in luoghi portatori di significato storico, da pratiche di comunione intorno alla storia dell’Italia Nera che sono al centro della ricerca di The Recovery Plan e dal desiderio di tornare alla regia della mia esperienza universitaria. È diventato necessario sviluppare una nuova pratica per mettere insieme questi elementi con sfumature, risonanza e potenza. Mi sono venuti in mente i giorni in cui studiavo cinema sotto la guida di Kevin Jerome Everson, perché già allora lavoravo con i media della pittura, della scultura, della performance, della musica, del suono e della scrittura ed ero attratto dalla capacità del cinema di unire approcci apparentemente disparati al linguaggio, al suono, alle immagini, alla performance e agli oggetti scultorei. C’è un riconoscimento di tutto ciò che si trova al di là dell’inquadratura della macchina da presa, come allusione agli slittamenti e alle insidie dell’archivio, che è anche in contrasto con il film stesso come materiale completamente archivistico. Sono spinto da questa fisicità temporale che può contenere quegli impulsi eterei e specifici del tempo che sono innati nelle nozioni di film come documento. Le conversazioni e gli scambi possono essere fatti e protetti dalla produzione di film muti. Queste conversazioni rimangono non archiviate, ma comunque conservate».

Il progetto si compone di dialoghi e scambi avvenuti negli ultimi anni con studiosə, artistə e attivistə. La mostra è stata accompagnata da un programma pubblico con differenti contributi. Come hai o avete strutturato questo percorso?

«Come artista molto interessato a forme collettive di lavoro sull’eredità, e come artista che vive in Italia, dove, come in molti altri luoghi, l’ambiente e gli standard sociali sono così triggering quando si tratta di una mancanza di cura per il passato degli afrodiscendenti, non vado da nessuna parte e non faccio nessuno di questi lavori da solo. Invito sempre dei compagni di viaggio, non per alleggerire il carico, ma per condividere tempo e spazio, per offrire la complessità e l’intuizione di cui c’è tanto bisogno e per impegnarsi in forme di guarigione e di mitigazione della rabbia. La rabbia in buona compagnia può diventare risata, può diventare canto, può essere una liberazione trasformativa. Può anche fornire una struttura per abbracciare e sfruttare la tensione, per abbracciarsi l’un l’altro e per conservare quella tensione per quando sarà necessaria, quando potrà essere utilizzata meglio. La struttura e l’orchestrazione del programma pubblico e dell’opera Groundings, che fornisce un luogo sacro che preserve la coralità del mio lavoro, sono una parte intima delle metodologie e dei modelli portati avanti a The Recovery Plan, in particolare la piattaforma di ricerca Black Archive Alliance, dedicata a forme di ri-narrazione dall’interno di quegli archivi che sono ufficialmente riconosciuti e di quelli che non lo sono. Il suono dal vivo ha accompagnato anche le mie prime esibizioni, con le jazz band, le marching band del liceo o anche solo la mia voce, come compagni e motori costanti dell’opera. Il programma pubblico, con le performance che hanno coinvolto Sadi, Dudù Kouate, Jermay Michael Gabriel e le conversazioni come quella con Greg de Cuir Jr. sono opportunità per dare agli spettatori un’idea del processo creativo fisico dell’opera, sperimentando in prima persona la realizzazione del suono in dialogo con i nuovi lavori cinematografici, per avere un assaggio del tipo di conversazioni intime, dirette e ampie che sono così spesso parte del mio modo di muovermi nel mondo, del modo in cui mi connetto con le persone, della conservazione di quei gesti di cura che nutrono e sostengono la mia mente e il mio essere. È stata anche un’occasione per mettere in evidenza il lavoro interistituzionale che ha caratterizzato la mia pratica di insegnante, artista e organizzatore in collaborazione con l’American Academy in Rome, con cui sono in dialogo dal 2002, e con il Museo delle Civiltà, che negli ultimi anni è stato un importante luogo di scambio critico. Spostare il lavoro in spazi al di là della mostra, attingere a ciò che viene offerto come possibilità di estensione del lavoro da parte di questi spazi e pubblici è stato centrale per il senso di continuità che questi momenti di evento pubblico offrono».

04. Minted in Enemy Bronze, 2023, Poster, Justin Randolph Thompson Image credit: Bradly Dever Treadaway.

La tua ricerca include una complessa riflessione sui racconti e le immagini che continuano a simboleggiare e favorire una narrazione egemonica, spesso intrecciata con elementi oppressivi che incidono sull’identità degli afro-discendenti. L’atto di decostruire e reinterpretare questi elementi è un aspetto centrale del tuo lavoro. Quale pensi possa essere il ruolo dei musei e delle istituzioni culturali in questo senso?

«Il mantenimento, il gatekeeping* (termine anglosassone che indica l’attività di controllare chi ottiene particolari risorse, potere o opportunità e chi no. Ha anche una connotazione negativa laddove si sottintenda che tale attività abbia scopo di selezione preventiva, esclusione di un determinato gruppo culturale, etnico o demografico, o semplicemente élitario) e l’espansione della fortificazione di questo tipo di narrazione egemonica, questa forma di ritorno coerente alla canonizzazione e alle radici antiche di tanti dei mali della società che hanno affiancato questo processo di rinarrazione della violenza dal passato, come se non fosse la violenza dell’invasione, dell’appropriazione, del genocidio, dello spostamento o dell’estrazione a dare forma e potere a ciò che è stato canonizzato, è la base o il fondamento di tanti musei e istituzioni culturali. Questo è stato vero per secoli e, come tale, il suo smantellamento potrebbe sembrare un sogno lontano e insostenibile per coloro che sono stati schiacciati o fatti sentire minuscoli davanti a queste facciate santificate e venerate. L’arroganza della permanenza fa sì che molti credano che ci sia un solo modo per impegnarsi nello sviluppo culturale, ovvero attraverso la conservazione di quegli assiomi culturali su cui hanno investito coloro che detengono il potere e l’influenza. Le fragilità di questa facciata accuratamente costruita sono in realtà abbastanza facili da vedere. Quando ci troviamo di fronte a monumenti fatti di materiali strappati alla terra dove avevano preso forma in un arco di tempo che fa sembrare la nostra esistenza irrilevante, guardando immagini scolpite in questi materiali, di celebrazione incauta dell’epistemicidio e della distruzione, e ci viene detto che questi oggetti rappresentano, in realtà, l’ingegno, il progresso tecnologico e le qualità culturali superiori, non ci vuole molto per notare le crepe, le incongruenze e le vere e proprie bugie della storia e della narrazione storica. I musei sono troppo spesso i custodi e i conservatori di queste bugie. Le istituzioni culturali dovrebbero essere chiamate a fare ciò che dovremmo chiedere ai nostri giovani: rifiutarsi di seguire e invece guidare. I musei e le istituzioni culturali hanno il loro posto e il loro ruolo, ma è fondamentale per noi riconoscere tutto il lavoro incredibile, stimolante e sconvolgente che si svolge al di là delle loro porte, fuori dai libri, ai margini dell’archivio. Tutto questo c’è sempre stato. Se da un lato dobbiamo ritenere questi spazi responsabili e spingerli verso forme di narrazione e investimento posizionate, dall’altro non dobbiamo riporre tutta la nostra fiducia nella loro capacità di ridefinire ciò che hanno controllato per così tanto tempo».

BSR, Justin Randolph Thompson, Minted in Enemy Bronze
Foto di Roberto Apa
Courtesy l’artista e British School at Rome

E per riconoscere il lavoro di artistə Nerə contemporanei?

«L’Italia è un microcosmo del più ampio contesto Occidentale, che elogia la produzione artistica del passato, ignorando tutto ciò che non è allineato con ciò che si sta promuovendo, e che scredita e sottovaluta quelli che sono i veri ricalibratori dei valori sociali, culturali ed economici: artistə, creativə, intellettualə. Questa svalutazione viene fatta di proposito perché, come ci ha detto James Baldwin, questi individui, che sono attivi contestatori, la cui coltivazione dovrebbe essere il risultato di una vera educazione, non sono allineati con la sicurezza e il comfort che tanto apprezziamo come società. Quando la cultura contemporanea è così sottovalutata, banalizzata, appropriata per qualsiasi causa, non ci vuole molta immaginazione per capire l’impatto che questo ha su artistə Nerə, la cui intera esistenza è stata rimossa dalla maggior parte delle narrazioni Occidentali sui valori, quando sfuggono alla feticizzazione, il più delle volte sulla base dell’essere rappresentanti eccezionali per le masse di un immaginario conglomerato Nero.

L’unica vera enfasi che vorrei porre su ciò che i musei e le istituzioni possono fare per riconoscere il lavoro di artistə Nerə è smettere di considerare il lavoro realizzato da persone Nere come un tema, smettere di folklorizzare la nostra esistenza, smettere di svalutare e dislocare il pensiero Nero e cercare di riflettere prima di tracciare gli elaborati meccanismi di difesa che vengono messi in atto quando la nostra semplice presenza è vista come una minaccia a tutto ciò che viene sostenuto».

In che direzione stanno andando gli studi decoloniali in Italia? E rispetto al contesto internazionale?

«Dovrebbe essere sufficiente farvi sapere che non uso termini come ‘decolonizzare’. Ogni parola può essere svuotata del suo significato, può essere appropriata dal sistema stesso che ha messo in atto la violenza della colonizzazione. Quando tracciamo paragoni o giudizi tra contesti culturali, siamo spesso preda di una mancanza di riconoscimento delle specificità e dei disallineamenti di tali paragoni. L’assenza di paralleli, quando si parla di temporalità, di trauma. Quando sentite questa parola nel contesto italiano, assicuratevi di dare un’occhiata a chi è coinvolto nell’avanzamento di queste rivendicazioni, a chi c’è intorno e dietro di loro, e guardate a lungo e con attenzione per vedere che presenze non bianche compaiono nelle conferenze, nei libri e negli scambi che avvengono intorno a questi termini. Non mi tiro fuori da tutto questo, perché sono spesso chiamato a far parte di questo ambito di dibattito. Come persona che proviene dagli Stati Uniti, dove le istituzioni hanno reso pubblico solo di recente il riconosciuto di essere occupanti di territori non ceduti ma presi con forza e violenza, ma sono molto meno propense a dichiarare il fatto, ovvio per molti, che non c’è alcuna intenzione di restituire questa terra, cosa potrei essere chiamato a contribuire sullo stato degli studi decoloniali?».

BSR, Justin Randolph Thompson, Minted in Enemy Bronze,
Foto di Roberto Apa
Courtesy l’artista e British School at Rome

In qualità di co-fondatore e direttore del Black History Month Florence e di The Recovery Plan, puoi dirci qualcosa di più su questi due centri di studio e ricerca e sui progetti futuri?

«Il Black History Month Florence è una delle otto piattaforme di ricerca sviluppate, alimentate e ampliate da The Recovery Plan, un centro di ricerca, un incubatore di pratiche e strumenti per riconsiderare la Storia degli afrodiscendenti in un contesto locale come Firenze, con tutte le sue implicazioni globali e transnazionali. Promuoviamo un lavoro che si occupa del futuro attraverso una profonda considerazione del passato, di coloro che sono venuti prima di noi, di tutti quei semi che sono stati piantati, che hanno solo bisogno di un po’ d’acqua, che sono cresciuti nonostante la mancanza di luce, che sono stati ascoltati nonostante le dichiarazioni di assenza di voce. The Recovery Plan è soprattutto un centro comunitario, un luogo di incontro informale e di svago come forma di studio. Il 2024 segna i cinque anni di The Recovery Plan, nato come pop-up presso Biagiotti Progetto Arte, grazie anche alla co-direzione di Janine Gäelle Dieudji. Dal 2021 il centro è ospitato dalla Santa Reparata International School of Art. Il 2025 segna la nostra decima edizione del Black History Month Florence, iniziato in Italia da me e da Adre Halyard, artista e promotore culturale di talento e sotto-celebrato. Con otto piattaforme e oltre 350 eventi alle spalle, uniamo le nostre forze a un incredibile gruppo di iniziative che si sono impegnate a organizzarsi intorno alla storia degli afrodiscendenti attraverso le loro visioni nelle città di Bologna, Torino e Milano, tutte autonome, ma attente al potere della connessione tra di noi. La nostra nona edizione, con il tema Full Rest, sarà inaugurata a febbraio 2024 con un nuovo gruppo di giovani artisti italiani afrodiscendenti che si uniranno nell’ambito della nostra YGBI Research Residency, giunta alla sua quinta edizione con il tutoraggio di Mawena Yehouessi, fondatrice di Black(s) to the Future, Parigi, Francia. Gli artisti saranno ospitati da Numeroventi, con cui collaboriamo dal 2020. Abbiamo in programma una mostra collettiva al Murate Art District che ruota attorno all’idea di Repose and Resist. Si tratta di un quadro concettuale e di una pratica che abbiamo portato avanti attraverso un collettivo che The Recovery Plan ha riunito con il sostegno della Terra Foundation for American Art la scorsa estate. Abbiamo un progetto personale dedicato alla ricerca di Hamedine Kane, attualmente borsista a Villa Medici. Questo progetto sarà inaugurato presso The Recovery Plan e la SRISA Gallery of Contemporary Art, rivisitando il Secondo Congresso degli Scrittori e Artisti Neri che si svolse a Roma nel 1959. Abbiamo in programma conversazioni e workshop alla NYU di Firenze, un roundtable sugli archivi Neri in Europa all’EUI e vari progetti a Villa Romana. Stiamo coordinando una collaborazione con il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci per i Pecci Nights, una lista di conversazioni e workshop alla NYU di Firenze, una serie di riflessioni sugli archivi Neri in Europa all’IUE e vari progetti a Villa Romana con cui collaboriamo dal 2016. Il tema di questa edizione del Black History Month Florence, Full Rest, ci invita a cercare momenti di tregua nella collettività, a confrontarci con tutto quel riposo che è stato apparentemente allontanato dai corpi degli afridiscendenti. È un invito a rifornirci e a permettere ai nostri amici, colleghi e collaboratori di condividere il nostro riposo, in modo da poter trovare l’energia per continuare a dedicarci al nostro compito».

Biografia di Justin Randolph Thompson

Artista, facilitatore culturale ed educatore che vive tra l’Italia e gli Stati Uniti dal 1999. È co-fondatore e direttore del Black History Month Florence e di The Recovery Plan. Thompson ha ricevuto, tra gli altri, un Creative Capital Award 2022, un Italian Council Research Fellowship 2020, un Louis Comfort Tiffany Award, un Franklin Furnace Fund Award e un Visual Artist Grant dalla Fundación Marcelino Botín.

Le sue opere e performance sono state esposte in numerose istituzioni, tra cui il Whitney Museum of American Art, il Centro de Arte Reina Sofía e l’American Academy di Roma, e fanno parte di numerose collezioni, tra cui lo Studio Museum di Harlem e il Museo MADRE.

La sua vita e il suo lavoro cercano di approfondire le questioni relative alla stratificazione culturale e all’arroganza della permanenza, promuovendo progetti che collegano il dibattito accademico, l’attivismo sociale e le strategie di networking fai-da-te in forme annuali e biennali di raccolta, condivisione e collettività.

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