22 ottobre 2025

Essere stranieri nel proprio linguaggio: un dialogo con Carlos Amorales

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Il linguaggio, la maschera, le (im)possibilità di comunicare: intervista a Carlos Amorales, in occasione della presentazione della sua ultima opera cinematografica a Vienna e in attesa del progetto a Torino

Carlos Amorales, Krinzinger, Vienna, 2025, ph. Luis Casanova

Al Vienna International Film Festival è stata presentata l’ultima cinematografica di Carlos Amorales, che ha inaugurato, in contemporanea, la mostra Face and Mask presso la galleria Krinzinger. Il nuovo progetto dell’artista messicano, Involution Report, sarà invece esposto a Torino, dal 2 novembre, presso Casa Gramsci di Lunetta11, in collaborazione con la Galleria Umberto Di Marino, nell’ambito dell’Art Week di Artissima.

Amorales concentra la sua ricerca sul linguaggio e sull’impossibilità o possibilità di comunicare attraverso forme non riconoscibili: suoni, gesti, simboli. Sperimenta i confini tra immagine e segno con media diversi, tra animazione, video, film, disegno, installazione, performance e suono, costruendo un linguaggio basato sulla traduzione, dove gli strumenti stessi diventano personaggi. Parliamo della sua ricerca, tra arte e cinema, in questa intervista.

Carlos Amorales, Krinzinger, Vienna, 2025, ph. Luis Casanova

Carlos, la trilogia che presenti alla Viennale nasce dal manifesto sul “cubismo ideologico”?

«In realtà no. Il “cubismo ideologico” è nato durante la lavorazione del secondo film, L’uomo che ha fatto tutte le cose proibite. È stato nel processo di montaggio e pianificazione che questa idea ha preso forma».

Quindi Amsterdam è la prima parte?

«Sì, Amsterdam è il primo capitolo. L’anno successivo ho realizzato L’uomo che ha fatto tutte le cose proibite».

Le tre opere sono legate da un racconto o da un manifesto comune?

«No, sono film indipendenti. Ciò che li unisce è la collaborazione con l’attore Philippe Eustachón. L’ho conosciuto anni fa, ma abbiamo iniziato a lavorare insieme nel 2011, in un video realizzato a Parigi. Da lì è nata la voglia di spingermi verso un linguaggio più cinematografico.Prima lavoravo soprattutto con la videoarte, in modo minimale: un’idea che si ripete in loop. La trilogia è stato un passo verso un linguaggio più narrativo, pur mantenendo un approccio sperimentale».

Philippe è presente in tutti e tre i film. Come hai deciso il suo ruolo?

«Nei miei lavori cerco spesso una relazione duratura con alcuni collaboratori come Gabriel Lester, Philippe, Julian o Silverio. Si crea una sorta di complicità, una proiezione di me stesso. Con Philippe la collaborazione è stata molto intensa: in quattro anni abbiamo realizzato insieme sei o sette film. La trilogia è la parte più cinematografica di questo percorso».

El hombre que hizo las cosas prohibidas, The Man Who Did All Things Forbidden, Carlos Amorales, Mexiko/Chile 2014, V’25 Kinematografie Carlos Amorales

Ricordi il primo film che hai visto?

«Forse Dumbo. È il primo che ricordo…e piangevo».

Quali sono le tue principali influenze cinematografiche?

«Amo il cinema giapponese. È un’influenza evidente nei miei lavori. Il primo film, ad esempio, è ispirato a La donna della sabbia. Mi affascinano quei film minimalisti che uniscono reale e fantastico, come quelli di Ozu, che ha influenzato anche la mia tecnica: nel terzo film ho usato un treppiede molto basso, “alla Ozu”. Il cinema giapponese classico è ciò che sento più vicino».

Vedi un confine tra cinema e arte contemporanea?

«Sì, sono mondi con logiche di produzione molto diverse. Nel cinema la finzione è accettata: se un personaggio uccide, si sa che è parte della storia. Nell’arte, invece, l’artista deve sempre “essere buono”. Il cinema è più libero, più istintivo; l’arte spesso ha difficoltà a confrontarsi con il male».

Perché le prime due parti della trilogia sono in bianco e nero?

«È una scelta estetica legata al mio amore per il cinema giapponese. Molti miei film sono in bianco e nero, ma il terzo è a colori, proprio come alcuni film di Ozu. C’è una continuità visiva, ma anche un’evoluzione».

El hombre que hizo las cosas prohibidas, The Man Who Did All Things Forbidden, Carlos Amorales, Mexiko/Chile 2014, V’25 Kinematografie Carlos Amorales

C’è un legame tra la trilogia e la mostra alla galleria Krinzinger?

«Sì. Da Krinzinger espongo una serie di volti disegnati a pastello e alcuni nuovi lavori legati alla Danza della Morte, ispirati sia a Bergman (Il settimo sigillo) sia a L’uomo che fa le cose proibite. Fin da bambino mi affascinano le immagini medievali e le Danze Macabre: sono una riflessione sul ciclo della vita».

E con la performance a Torino, a Lunetta 11?

«Anche quella è connessa. Presentiamo delle nuove maschere ispirate a quelle rinascimentali in velluto nero, usate dalle donne per proteggersi dalla luce. La maschera è una costante nel mio lavoro e compare spesso nei film. In Involution Report, ad esempio, immaginiamo un mondo in cui i ricchi sono fuggiti su Marte, lasciando sulla Terra una società “proletaria” che, pur senza elettricità, ritrova una forma di equilibrio naturale. ll giornale che accompagna la mostra funziona come una sceneggiatura: durante la performance Philippe leggerà il testo, mentre due figure mascherate ascolteranno. È una sorta di preludio a un possibile nuovo film».

Gli artisti della collettiva come si relazionano al tuo lavoro?

«Non ho chiesto loro di reinterpretarlo, ma di confrontarsi con alcuni temi, come la maschera. Isaac Olvera, ad esempio, ha tagliato gli occhi di alcuni libri trasformandoli in maschere; mia madre, durante la pandemia, ne ha create pensando alla protezione sociale; Astrid lavora invece sul velo, sul concetto di mascheramento. La maschera, nel mio lavoro, non è mai solo un oggetto: anche la pittura o lo stencil sono forme di mascheramento».

Carlos Amorales, Krinzinger, Vienna, 2025, ph. Luis Casanova

Che ruolo ha la musica nella trilogia?

«Fondamentale. Amsterdam prende spunto da una canzone di Jacques Brel e riflette sull’oscurità del vivere in Europa. L’uomo che ha fatto le cose proibite è ambientato all’aperto e include momenti sonori creati con materiali naturali, rami, pietre, fuoco. La musica è sempre presente, anche quando non è esplicitamente “musicale”».

Durante la pandemia hai realizzato una serie di video musicali in cui appari con diverse maschere. Come è nato quel progetto?

«Durante la pandemia ero solo in studio. Ho iniziato a usare Zoom come specchio, filmandomi da solo. Ne è nata una serie di venti videoclip con musiche diversissime, dalla salsa all’hip hop inglese. Ogni video è una variazione sul tema della maschera. Da quel materiale ho montato La retorica della maschera, un video che riflette sul nostro modo di vivere oggi tra reale e virtuale. È un lavoro che parte in modo ironico ma diventa via via più intenso e inquieto».

Che ruolo ha oggi il curatore nel tuo lavoro?

«Molto importante. Ci sono curatori più istituzionali e altri più “pirati”, indipendenti. Per me il curatore è un complice, come il gallerista: qualcuno che crede nel tuo lavoro e aiuta a costruire possibilità».

Carlos Amorales, Krinzinger, Vienna, 2025, ph. Luis Casanova

Se dovessi scegliere un film come metafora del tuo lavoro?

«Il silenzio di Bergman. Due donne e un bambino viaggiano in un paese dove non comprendono la lingua. Tutto è incomprensibile. Anche il mio lavoro nasce da quella sensazione: essere straniero in un luogo che non capisci. È un sentimento di isolamento, ma anche di scoperta. Esteticamente guardo al cinema giapponese, ma emotivamente è Il silenzio che più mi rappresenta».

Hai nuovi progetti filmici?

«Non ancora. Girare un film è un processo impegnativo. Non lavoro nel sistema del cinema, ma in quello dell’arte, e questo mi dà libertà. L’uomo che ha fatto le cose proibite è stato complesso da realizzare, lo abbiamo girato in Cile, mentre La retorica della maschera l’ho realizzato con il computer, a costo zero. Forse Involution Report potrà evolvere in una nuova finzione, ma è presto per chiamarlo “cinema”».

Prima hai detto che nel cinema si può rappresentare il male, mentre nell’arte è più difficile.

«Sì. Nel cinema il male è accettato come parte della finzione; nell’arte l’artista deve essere “buono”. Io mi considero amorale, non buono o cattivo. Mi interessa l’ambiguità».

Di che colore è la tua vita?

«Come una cartina al tornasole. Mia madre lavorava con i titanati e quando li scaldava cambiavano colore. Mi piace pensare che la mia vita sia così: una risposta che cambia con la luce».

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