31 luglio 2020

Filippo De Pisis: pittore inquieto e raffinato vagabondo

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A Palazzo Altemps, a Roma, continua la mostra dedicata al Marchesino Pittore, ovvero Filippo De Pisis, moderno ante litteram dallo sguardo astratto, metafisico e surreale

Filippo De Pisis a Palazzo Altemps
Filippo De Pisis a Palazzo Altemps

“Vedrai, io diventerò un grande pittore. Anche Leopardi ha faticato tanto per farsi riconoscere. Ti ricordi, noi abbiamo fatto i poeti. Adesso io faccio il pittore”. Quando scrive queste frasi all’amico Nico Naldini siamo nella Ferrara del 1916 dove Filippo De Pisis frequenta Giorgio De Chirico e suo fratello Andrea – poi noto con lo pseudonimo di Alberto Savinio – e li invita spesso nelle sue “camere metafisiche”, alcune stanze che De Pisis ha allestito come una wunderkammer privata nella sua abitazione ferrarese, dove Giorgio aveva depositato per qualche tempo alcuni suoi dipinti metafisici. E in quelle stanze è già scritto il destino di De Pisis, pittore flâneur, inquieto e raffinato vagabondo del pennello, aristocratico irregolare, paesaggista emotivo e sensibile, sperimentatore sempre rispettoso della tradizione .

De Pisis, Veduta veneziana, Casa Cavazzini, Museo d'Arte Moderna e Contemporanea di Udine
De Pisis, Veduta veneziana, 1939

Il “Marchesino pittore” sfugge ad un’unica definizione, e la sua personalità si rivela più complessa di quanto non possa apparire a prima vista. Lo dimostra la mostra a palazzo Altemps (fino al 20 settembre) dove Pier Giovanni Castagnoli, in collaborazione con Alessandra Capodiferro, ha riunito 26 dipinti insieme ad una serie di disegni, rari e preziosi, per ripercorrere il fil rouge che lega l’artista alla classicità romana, da lui scoperta in occasione del suo trasferimento a Roma dopo gli anni ferraresi, tra il 1920 ed il 1924. Un periodo molto fecondo per De Pisis, come testimonia l’amico scrittore Giuseppe Raimondi: “La passione archeologica, retaggio dell’infanzia, lo spingeva nei musei, nei luoghi delle classiche rovine (…) Si ha ricordo del giovane ferrarese, inquieto e melanconico, nelle sale dei palazzi romani, a qualche erudito ricevimento, che arrossiva un poco a dichiararsi “pittore”.”

Natura morte occidentale, 1919, Collezione della Fondazione Cariverona
Natura morte occidentale, 1919, Collezione della Fondazione Cariverona

De Pisis da Ferrara a Roma

Nella città eterna ritrova Giorgio De Chirico, frequenta assiduamente Armando Spadini, esplora i musei per ammirare i paesaggi di Claude Lorrain e i capolavori di Nicolas Poussin, Caravaggio o Guercino. E non è improbabile che il suo sguardo sia stato attirato anche dalla pittura tedesca dei Nazareni ma forse anche di Lovis Corinth e Christian Shad, arrivato anche lui a Roma nel 1920, del quale avrà apprezzato gli inquietanti ritratti. La mostra a palazzo Altemps, arricchita da un interessante e ricco catalogo edito da Electa, comincia con un dipinto simbolo dell’attrazione di De Pisis per le rovine come L’archeologo, eseguito nel 1928 e seguito da Pane sacro (1930), accompagnati da una serie di interessanti collage, come Natura morta isterica (1919) e Natura morta occidentale (1919) dove il giovane artista, ancora in cerca di un linguaggio proprio, inserisce elementi tratti dal surrealismo di Max Ernst, dal dadaismo di Tristan Tzara e dalla metafisica di Giorgio Morandi. Non è un caso che le sue nature morte siano costruite come paesaggi di oggetti quotidiani, che nel loro stare insieme raccontano le inquietudini di un’esistenza nomade e sempre transitoria, composta da continui naufragi e risalite. Dopo Roma sarà Parigi, dove De Pisis arriva nel 1925 e si trova immerso nell’universo bohemien dove riceve suggestioni di vario genere, da Maurice Utrillo a Henri Matisse fino a André Dunoyer de Segonzac e si appassiona al tema del “quadro nel quadro”, che troviamo in opere come Natura morta con “il capriccio di Goya” (1925), I pesci sacri (1925) e Le cipolle di Socrate (1926) , “per segnalare-puntualizza Castagnoli- che l’arte è cosa mentale e la pittura finzione, che perennemente si nutre di se stessa e tramite se stessa si rinnova”. Negli stessi anni De Pisis accosta alla pittura il disegno, concepito- sottolinea Elena Pontiggia- non come “pratica marginale, ma un esercizio decisivo (…). Non come studio preparatorio, schizzo o bozzetto, ma come un’opera completa, autonoma , definitiva”. E di questo aspetto dell’artista, meno noto ma di notevole interesse, la mostra da conto con una selezione di nudi e ritratti realizzati dal 1930 al 1950: opere su carta di una delicatezza estrema, quasi commovente, che dallo spazio destinato alla mostra si espandono nelle sale del piano nobile di palazzo Altemps, per dialogare con sarcofaghi, sculture e busti, in raffinati giochi formali e linguistici orchestrati dal curatore.

De Pisis, I Pesci Sacri, 1925
De Pisis, I Pesci Sacri, 1925

Ed è forse in questi fogli pallidi e diafani che si capisce meglio la dimensione rarefatta e immateriale dell’arte di De Pisis: i pochi tratti di matita per suggerire il volto di un ragazzo dalle labbra sensuali, le sanguigne che riprendono rimandi rinascimentali, i fogli che riportano pose e gesti di corpi classici, come in Nudo (Riposo del Fauno) (1934) o in Figura ignuda seduta (1936). Col passare del tempo la sua pittura si fa più veloce e rarefatta: negli anni di Londra, Milano e Venezia, prima del ricovero a Villa Fiorita a Brugherio, dove si spegne nel 1956, la tavolozza di De Pisis si impoverisce di colori per arricchirsi di tratti più veloci e istintivi, in una sorta di tensione verso un astrattismo sensibile e nervoso. “Le pennellate sono disaggregate, come le ombre separate dai loro oggetti” puntualizza Corrado Levi, grande estimatore dell’artista. Il disegno resta invece intenso e sensuale, sia nei ritratti che nel gruppo dei nudi maschili , eseguiti dal vero tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, che presentano diverse somiglianze con i disegni di Pier Paolo Pasolini: tra questi spicca Pugile, accostato in una sala di palazzo Altemps ad una testa romana. Sono gli anni del Ritratto di Allegro (1940), un ragazzo conosciuto sulla spiaggia di Rimini, colto da De Pisis con un rossore nelle gote quasi disturbante – definito da Massimo Bontempelli come emblema di un rinnovato classicismo – che il pittore paragona ai volti di Antonio Allegri, detto il Correggio, quando scrive sullo sfondo del dipinto con la punta del pennello “Non Allegro ma Allegri”. Per concludere, il pregio più grande di una mostra da non perdere è il dialogo costante tra tele e disegni, che permette di esplorare in maniera profonda il pensiero del “Marchesino pittore” per coglierne alcuni accenti di aurorale modernità.

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