20 maggio 2023

Focus curatori in 22 domande: intervista ad Alberto Salvadori

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22 domande per curatrici e curatori, spesso outsider, per raccontare tutte le declinazioni più attuali di un ruolo di responsabilità: la parola ad Alberto Salvadori, “curatore che non ama lo specialismo in un’epoca di super specialisti”

Prosegue il nostro “FOCUS curatori”, 22 domande (le stesse per tutti) destinate a curatori e curatrici spesso “outsider”, per raccontare attraverso declinazioni personali, caratteristiche, metodologie e modalità proprie della professione curatoriale odierna. Un mestiere relativamente nuovo che, nel corso di qualche decennio, ha cambiato radicalmente forma. Una pratica dinamica, basata su studio, fonti d’ispirazione e conoscenze interdisciplinari. Un ruolo di “cura” e responsabilità nei confronti degli artisti e delle loro ricerche, del pubblico, di attenzione ai cambiamenti nella società, nel dibattito sociale, politico e culturale del momento. La nona puntata della nostra rubrica ha per protagonista Alberto Salvadori.

Ettore Spalletti. Photo by Matteo Piazza

Come ti definiresti?

«Una persona fortunata che fa ciò che ama fare».

Dove sei nato e dove vivi?

«Sono nato a Vinci, cresciuto a Gambassi Terme nella campagna tra San Gimignano e Volterra e vivo molto in treno e aereo».

Dove vorresti essere nato e dove vorresti vivere?

«Tempo fa avrei detto che sarei cresciuto volentieri altrove, adesso invece non più. Vivo tra Firenze e New York e sono molto soddisfatto».

Quando hai capito che ti interessava l’arte?

«Fin da ragazzo quando i miei genitori mi portavano in giro per l’Italia, avevano la fissa che, entro i miei 14 anni, avrei dovuto vedere tutto il nostro Paese… ovviamente non siamo riusciti a vederlo tutto ma molto, moltissimo sì. E meno male che avevano questa fissa».

Quando hai deciso che avresti fatto il curatore?

«Non ho mai preso questa decisione, ho studiato storia dell’arte. Non mi trovo molto nella definizione di curatore. Mi interessano l’arte, gli artisti e le loro opere».

Quali sono i libri che ti accompagnano nel tuo percorso professionale?

«Ho letto e leggo molto sulla curatela, ma non mi ha mai appassionato un granché la letteratura specialistica. Troppo manualistica e tecnica, mi fa effetto bugiardino dei farmaci. Sento da troppi anni e troppo spesso gli stessi discorsi e le stesse domande. Siamo arrivati a una forma di nemesi dove il curatore è protagonista e gli artisti e le opere sono meri strumenti da lavoro. Poi la frase che mi fa impazzire è: questa mostra vuole riflettere… non riesco a trattenermi dal ridere».

Le Stanze della Fotografia. Isola di San Giorgio Maggiore, Venezia. Foto: Luca Zanon
Le Stanze della Fotografia. Isola di San Giorgio Maggiore, Venezia. Foto: Luca Zanon
Le Stanze della Fotografia. Isola di San Giorgio Maggiore, Venezia. Foto: Luca Zanon

Quali sono le fonti, gli autori e le opere extra-arti visive, di cui ti nutri nello svolgimento della tua attività scientifica?

«Ho avuto la fortuna di studiare a Pisa negli anni ’90, ed era normale seguire i corsi di Francesco Orlando, Adriano Prosperi, Ciardi, Bodei, Maria Grazia Messina e Fabrizio d’Amico… e molti altri ancora. C’erano i seminari di Castelnuovo e Barocchi, corsi sulla miniatura, cinema, teatro e scenografia, sul tessuto con Donata Devoti, di iconologia e iconografia o di filologia romanza e critica d’arteinsomma era una meraviglia…poi andando nel 1995 a SussexUniversity ebbi la fortuna sfacciata di trovare lì Thomas Crow e David Mellor e un altro mondo si aprìMi sono formato con questa attitudine a considerare tutto una fonte. Se devo parlare di libri, partendo da lontano, ti dico Antirinascimento di Eugenio Battisti, Sempre nel posto sbagliato di Edward Said, I diari di Andy Warhol, Precronistoria di Germano Celant, Le parole e le cose di Michel Foucault, L’ovvio e l’ottuso di Roland Barthes, Emulation: MakingArtists for Revolutionary France di Thomas Crow, L’Europa delle città di Marino Berengo, Apologia della storia di Marc Bloch e Indagini su Piero di Carlo Ginzburg, Illuminismo barocco e retorica freudiana di Francesco Orlando, L’uomo senza qualità di Robert Musil, Saggio sul dono di Marcel Mauss e La caduta dell’uomo naturale di Anthony Pagden, Homo Ludens di Joahn Huzinga e poi Chantal Mouffe e poi e poil’elenco potrebbe continuarefino ad arrivare all’ascolto di Alice nel paese delle meraviglie tradotto e letto da Aldo Busi.

Questi sono alcuni titoli che appartengono a differenti momenti della mia vita, che non ho mai lasciato. A oggi, possiedo circa 5mila libri ma, in ogni caso, la fonte migliore è la curiosità che non mi abbandona mai. Sono estremamente curioso e affascinato da tutto quello che non conosco. Insomma, mi sento sempre in difetto e,quindi, non smetto mai di leggere, vedere, ascoltare…di tutto…ma essendo alla fine un pigro seguo il più possibile le mie passioni».

Fondazione ICA Milano Annette Kelm. Die Bücher, 2022 Exhibition view Courtesy l’artista e Fondazione ICA Milano Ph. Andrea Rossetti
Fondazione ICA Milano Annette Kelm. Die Bücher, 2022 Exhibition view Courtesy l’artista e Fondazione ICA Milano Ph. Andrea Rossetti
Fondazione ICA Milano Annette Kelm. Die Bücher, 2022 Exhibition view Courtesy l’artista e Fondazione ICA Milano Ph. Andrea Rossetti
Fondazione ICA Milano Annette Kelm. Die Bücher, 2022 Exhibition view Courtesy l’artista e Fondazione ICA Milano Ph. Andrea Rossetti

Qual è la mostra che ti ha segnato e perché?

«La Documenta di Katharine David e quella di Okwui Enwezor, Archive Fever sempre di Enwezor, appartengono oramai alla storiadelle mostre, ma all’epoca furono per me fondamentali. Pensando a delle monografiche troppo difficile. Guardando indietro, penso a tutto ciò che vedevo soprattutto a Londra tra il 1993 e il 1999, avendoci passato molto tempo. Più che le mostre però ricordovolentieri il Fridge a Brixton, l’Heaven, il Ministry of sound, il 666,ho goduto della coda finale del Marquee e delle serate negli edifici anonimi abbandonati...».

Qual è l’opera d’arte che ti ha avviato nei sentieri della professione nelle arti visive?

«Non saprei, non ce n’è una in particolare. Forse, inconsapevolmente,il Sacro Monte di San Vivaldo, dove da ragazzini andavamo a passare dei pomeriggi in grande relax. E quelle figure in terracotta policromapiene di verità mi parlavano molto di qualcosa che sentivo a me vicino, ma che non capivo. Sono cresciuto in mezzo a capolavori etruschi e rinascimentali e, anche se non riuscivo a decifrare il senso di tutto quello che vedevo, mi sentivo molto attratto. Quando ero piccolo la strada per andare nella casa di vacanza a Castagneto Carducci era la volterrana. E ho un ricordo vivido delle visite al Museo Guarnacci e dell’Ombra della sera e della Deposizione del Rosso. Poi ci fermavamo a mangiare la cecina a Saline di Volterra, erano gli anni 70 fino alla metà degli 80…Qualche anno dopo mi infilavo al Castello di Volpaia di Luciano Pistoi, oramai più di 30 anni fa. Però non avevo capito ancora molto di quello che facevo, era tutto molto istintivo. Insomma, l’arte c’era sempre».

Robert Olnick Pavilion, Magazzino Italian Art, Cold Spring, NY. Photo by William Mulvihill. Courtesy Magazzino Italian Art
Robert Olnick Pavilion, Magazzino Italian Art, Cold Spring, NY. Photo by Marco Anelli. Courtesy Magazzino Italian Ar
Magazzino Italian Art campus. Photo by Jacobo Mingorance. Courtesy Magazzino Italian Art

Quali artisti contemporanei che hai personalmente conosciuto sono stati importanti nell’avviamento della tua professione? E perché?

«Non ne ho uno in particolare, quanto molti che con le loro idee e le loro opere mi hanno formato; assieme al pensiero degli architetti, allinafferrabilità della musica e della danza, alla poesia, alla letteratura e filosofia, alla geografia e antropologia…Ho sempre sentito e vissuto l’arte in rapporto diretto con il pensiero e la teoriatradotta in pratica, poco in relazione ai curatori».

Quali sono stati i tuoi maestri diretti e/o indiretti nella curatela?

«Diretti nessuno, indiretti mi piace citare un amico, Francesco Bonami, che quando lo vedo mi trasmette una serena gioia canzonatoria nei confronti di chi si prende troppo sul serio, pur essendo lui molto serio nel lavoro. Mi piace e mi interessa questa sana consapevolezza che nessuno di noi curerà davvero nessuno».

Con quale progetto hai iniziato a definirti curatore?

«Con la direzione del Museo Marino Marini a Firenze ho iniziato aoccuparmi totalmente di un luogo, della sua identità e del suo programma. Se questo vuol dire fare il curatore allora ho iniziato lì».

Carlo Scarpa, Venini & C., Velato e inciso, ca. 1940 Olnick Spanu Collection, New York

Qual è la tua giornata tipo?

«Mi alzo e preparo il caffè con la moka, leggo almeno 1 e se posso 2 ore (viaggiare aiuta, si spegne il telefono e si legge). Poi fino a sera lavoro sui molteplici progetti che seguo. Vado a vedere mostre, quando posso danza contemporanea e film. In tutto questo cerco di dedicare più tempo possibile alla mia famiglia: la mia compagna e le mie figlie, gli amici cari, a loro tutti devo molto».

Hai dei riti particolari quando lavori?

«Sono ossessionato dall’ordine… ne sanno qualcosa i miei collaboratori e ho la fortuna di averne di molto bravi».

C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?

«Moltissimo, non potrebbe essere altrimenti».

Qual è il progetto, la mostra che hai curato che trovi più rappresentativa del tuo percorso scientifico?

«Più di tutto, a oggi, avere co-curato il Catalogo generale della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti con Carlo Sisi, dal quale ho imparato moltissimo. Sono stati otto anni di lavoro e ricerca straordinari con persone di grande qualità umana e professionale. Poi i progetti che sto preparando adesso, in particolare l’apertura del nuovo corso di Magazzino Italian Art e il suo futuro».

A tuo avviso, qual è lo stato della critica d’arte in Italia?

«Non lo percepisco molto».

Quali sono i tuoi riferimenti critici?

«Non riesco a fare un nome…In ogni momento della vita incontri le idee di qualcuno che ti appassionano…».

La mostra di un altro collega che avresti voluto curare?

«Archive Fever, sempre del grande Enwezor, che ha anticipato e capito prima e meglio l’importanza dell’archivio. Pensa che quella mostra non venne fatta in un museo dedicato all’arte contemporanea,ma nella vecchia sede dell’ICP a New York, ossia un posto dedicato alla fotografia…».

Quale ritieni che sia il tuo più grande limite professionale?

«Non amare lo specialismo in un’epoca di super specialisti, amo la cultura di matrice enciclopedica».

Progetti in corso e prossimi?

«Lavorare all’ampliamento di Magazzino Italian Art istituzione museale e culturale fondamentale per l’arte e la cultura italiana, fondato da persone speciali. Far crescere sempre di più ICA Milano, affrontare il futuro con importanti progetti su Ugo Mulas e iniziare a far conoscere in maniera più estesa il lavoro di Nini Mulas, una fuoriclasse. Infine continuare a prendermi cura di un progetto folle e magnifico, Hzero a Firenze».

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