17 febbraio 2021

Immagini “sbagliate”: intervista a Marco Pietracupa

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Le sue immagini sono crude, con uso impietoso del flash, e sembrano “sbagliate” - nate per caso o per errore. Le inquadrature -tagliate, scomposte- appaiono accidentali. Le immagini di Pietracupa sono inaspettate e talvolta inquietanti – forse è da questo che deriva il loro fascino. La nostra intervista

Marco Pietracupa, scatto tratto dalla monografia Shapeshifter, Yard Press, 2016

Le sensazioni contrastanti sono le più affascinanti. Marco Pietracupa lo sa bene, o almeno lo “sanno” le sue fotografie. Che ritraggano eleganti modelle o parti dei loro corpi, objet trouvés o opere d’arte, celebrità o parenti: le sue immagini crude, con uso impietoso del flash, sembrano “sbagliate” – nate per caso o per errore. Le inquadrature -tagliate, scomposte- appaiono accidentali. Le immagini di Pietracupa sono inaspettate e talvolta inquietanti – forse è da questo che deriva il loro fascino, un po’ come quelle associazioni psichiche che affiorano dalla superficie torbida del dormiveglia. Il risultato è sempre e comunque sofisticato, di elegante disincanto e dal tocco surreale. E con una cifra autoriale ben riconoscibile, quel velo di “pietracupaggine” che le fa emergere, nonostante tutto, nel mare magnum visivo a cui siamo esposti quotidianamente dai social e dalle pubblicità.
Marco Pietracupa (Bressanone, Alto Adige, vive e lavora tra Milano, Parigi e il mondo) è un noto fotografo di moda, che ha iniziato con una Agfamatic tele pocket 2008 ricevuta in regalo da ragazzo. Negli anni ’90 dopo aver frequentato l’Istituto Italiano di Fotografia, si afferma sulla scena della moda milanese, cosa non facile a quei tempi “per un eterosessuale, non ricco” e lavora per riviste come L’Officiel, L’Uomo Vogue, Harper’s Bazaar, D di Repubblica, Rolling Stone, VICE e marchi come Gucci, Bulgari, MSGM, Valextra e moltissimi altri. Già allora il suo approccio è personale, in “stile Pietracupa”- è tra i primi ad introdurre in Italia il nuovo linguaggio che si stava affermando in quegli anni, in cui la moda e il modo di raccontarla, anche fotograficamente, stava cambiando. L’idealizzazione delle top model degli anni ’80 aveva ceduto il passo a bellezze dal fascino malato, ritratte in situazioni intime, private in immagini dal taglio realistico e destrutturato, che cominciava a diventare cool, glamour.
Parallelamente Pietracupa ha sviluppato un suo percorso artistico personale-raccolto in parte nella monografia Shapeshifter uscita per Yard Press nel 2016- e che lo ha portato ad esporre in diverse gallerie ed istituzioni. Anche nelle sue mostre Pietracupa gioca con sfasature e contrasti -in After Now, presso Marsèlleria, Milano nel 2018 aveva esposto insieme una serie di collage e di fotografie scattate con il cellulare. I nudi di prostitute in Flying Carpet, Le Dictateur, Milano, 2012, dialogavano con immagini dei tipici Krampus (diavoli) altoatesini, mentre il pavimento dello spazio espositivo era stato rivestito di una pellicola dorata specchiante. E proprio in Alto Adige, durante il primo lockdown del 2020, Pietracupa ha realizzato un nuovo nucleo di lavori, da cui prenderà le mosse la sua prossima personale, in programma presso FuturDome a Milano quest’anno. Tra i progetti in programma nella prossima primavera c’è anche la partecipazione alla mostra collettiva “Other Identity” a Genova. Ma la chiacchierata con Pietracupa inizia parlando della sua idea di casualità, programmata e programmatica.

Marco Pietracupa per Dry

Qual è la forza della casualità, per te? Cosa aggiunge al nostro sguardo? Più che allo sguardo, la casualità aggiunge qualcosa alla mente, all’immaginazione. Mi piace creare immagini aperte, che lasciano spazio a chi guarda, e magari innescano un “viaggio”. C’è un aspetto di racconto presente anche nella tecnica, che utilizza il flash e si avvicina al reportage.

Marco Pietracupa per Lampoon Magazine

Puoi dirci di più della tecnica? La mia fotografia è elementare sia nella tecnica che nella presa dell’inquadratura. Mi piace essere libero – a scuola prendevo il banco ottico in spalla perché mi dava fastidio il cavalletto ! Che infatti non uso: mi basta la macchina con il flash sopra e via. Quando scatto, mi piace avere la massima libertà di movimento: la macchina piccola aiuta ad essere flessibile, spostarmi, guardare il soggetto da più angolature e stabilire un piano più intimo, quasi voyeuristico con le persone–troppa attrezzatura mette in soggezione. Per quanto ricercati possano essere i luoghi, i set e i props, lo scatto giusto nasce dall’interazione e dalla casualità del momento, dallo sbaglio voluto e non impostato. Scatto senza riguardare nel mirino, sovraespongo e sottoespongo con un’unica certezza: controllare sempre di non avere il controllo. E poi zero elaborazione, per un discorso di purezza.

Marco Pietracupa, scatto dalla mostra Flying Carpet, Le Dictateur, Milano, 2012

Ma ti fai un’idea prima di scattare o tutto nasce sul momento? Do molto valore alla spontaneità. Se vuoi comunicare un messaggio unico e preciso crei un’immagine preparata, composta e ottieni un risultato ripetibile ovunque – e per me questo è un limite. Ad esempio, quando scatto un ritratto mi piace cogliere quello che trovo sul luogo, come si muove la persona, insomma niente fondo bianco, luce di tre quarti e mano sotto il mento: ogni mio ritratto è diverso e non ce n’è uno uguale.

A proposito di luoghi: hai un interesse particolare per i non luoghi, o luoghi di mezzo, tra cui anche gli uffici… Si , ho la passione per gli uffici abbandonati e mi interessano in genere tutti i luoghi desolati e in trasformazione verso qualcosa di diverso da ciò che erano e non sono più. Forse questa attenzione è legata al mio interesse per la caducità delle cose e quindi per la morte.

Lo studio creato da Marco Pietracupa nel fienile durante il lockdown

E le nuove foto che hai scattato durante il primo lockdown 2020? Come sono nate? Ero in Alto Adige, a Bressanone e ho iniziato per disperazione, un po’ come tutti. Vivo in una casa che fa parte di un piccolo maso e c’è ancora una stalla con il fienile, utilizzati come magazzino. Mi sono costruito li, nell’ex-fienile, uno studio fantastico con gli oggetti che avevo a disposizione in quel momento, niente props in particolare. Per il fondale ho utilizzato un green screen di mio figlio e poi ho preso quello che ho trovato in giro nel fienile, oggetti polverosi. Sono riuscito a mettere insieme un gruppetto di sette adulti tra le persone che avevo a disposizione, la mia famiglia e altri parenti rimasti bloccati a casa nostra a causa del lockdown. Il lavoro riflette questa situazione, in cui tutto era molto “trovato” e ha dentro sensazioni contraddittorie, tra il drammatico, l’assurdo e l’allegro. Tutti hanno posato nudi per me.

Niente imbarazzi? No, assolutamente e poi sono abituati perché fotografo spesso i miei parenti nudi. Ho già fatto una mostra con i miei cari e anche mia madre senza veli.

La mostra per FuturDome è nello stile Pietracupa? Si, ma potrebbe riservare delle sorprese con un’apertura al digitale – di più non posso svelare, per ora.

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