08 marzo 2021

Jonathan Vivacqua, Lavoro Inutile – White Noise Gallery

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Jonathan Vivacqua celebra e spoglia con ironia il valore del ruolo produttivo in una mostra che riflette su l'utilità del lavoro in relazione al tempo in sospeso che stiamo vivendo

Lavoro Inutile
Jonathan Vivacqua, Lavoro inutile

Quanto, oggi, il nostro lavoro è utile?
Lo scoppio della pandemia ha aperto una parentesi storica che, dopo un anno, ancora non è stata chiusa.
In questo contesto si inserisce Lavoro inutile, titolo della mostra di Jonathan Vivacqua in corso alla White Noise Gallery a cura di Eleonora Aloise e Carlo Maria Lolli Ghetti.
Un progetto sviluppato in risposta al lockdown e che riflette sul valore della produttività, in relazione alla condizione sociale, in rapporto a sé stessi, al contesto economico e al tempo in sospeso di cui siamo ancora vittime.

L’ironica armonia di un lavoro inutile

Entrare nella mostra vuol dire mettere in discussione il tempo e lo spazio.
La caratteristica che definisce lo spazio come un elemento delimitato, viene contraddetta dalla moquette sul pavimento che, con il suo colore blu, immerge lo spettatore in un tono che evoca un’inesauribile profondità, ma non solo. La pavimentazione, infatti, ricorda quella degli uffici anni ’80, amplificando la sensazione di luogo asettico.
Su questa morbida superficie poggia l’opera cardine della mostra: un mosaico composto da distanziatori per la posa dei pavimenti da cui emerge la scritta “Lavoro inutile”.
Per le sue installazioni Jonathan ha usato materiali di scarto dei cantieri. Come scarto è stato il tempo in eccesso che avevamo a disposizione durante il lockdown.

Mentre eravamo chiusi in casa quante volte abbiamo ripetuto le stesse azioni?

Il gesto di disporre piccole forme quadrate identiche l’una accanto all’altra sembra ricordare quello di Alighiero Boetti che tra gli anni ’60 e ’70 scelse di mettere in discussione la ripetitività del tempo in relazione al lavoro, ricalcando i quadretti di venticinque fogli ed annotando la durata dell’operazione. Questa serie, intitolata Cimento dell’armonia e dell’invenzione, traeva il titolo dall’omonima opera di Antonio Vivaldi contenente i concerti delle Quattro Stagioni.
Se con questo titolo Vivaldi si riferì al piacere che provava nello sperimentare la sovrapposizione della forma del ritornello, Jonathan cerca di evidenziare come il risultato di una meticolosa ripetitività possa suscitare un piacere amaro.
In questo grigio mosaico, ogni tassello viene celebrato ma anche spogliato con ironia della sua specificità, uguale a tutti gli altri si perde tra loro, frutto di azioni cadute nel baratro dell’inutilità.

La regolarità dell’esecuzione può sfiorare l’ossessione, come quella della potenza e dell’autocelebrazione e Jonathan lo racconta nell’opera esposta You are a fucking bodybuilder, un bilanciere di cemento e pietra, troppo grande per poter essere sollevato dalla nostra presunta forza.

Lavoro Inutile
Jonathan Vivacqua, Installation view

Concentrarsi eccessivamente sulla propria performatività può portare a non vedere oltre sé stessi. Ce lo dimostra la serie Panorama, composta da piastrelle colorate, pixels di immagini troppo distanti per essere messe a fuoco da occhi egocentrici.
Altri frammenti quadrangolari che si inseriscono in un armonico sistema: quello della ripetizione. Di questa reiterazione non si ha chiaro il reale scopo, dove ci porterà?

Lavoro Inutile
Jonathan Vivacqua, Panorama

L’ultima sala sembra cercare una risposta, occupata da badili autoportanti. Per questa installazione Jonathan ha scelto due strumenti simbolo per eccellenza del lavoro: pale e terra. Gli attrezzi solitamente sorretti dal lavoro umano ora sono in “Pausa”, così come suggerisce il titolo dell’opera, in attesa che una mano impegnata in un’azione non inutile possa muoverli verso uno scopo più definito.

Jonathan Vivacqua, Pausa

Il lavoro dell’arte resta ancora inutile?

La pandemia ha lasciato in sospeso le nostre vite, la nostra libertà, i nostri progetti, quelli lavorativi come anche quelli artistici.
La Quadriennale ha riaperto da poco le sue porte, così come la mostra Io dico Io – I say I alla GNAM, prevista invece per l’anno scorso. Sono solo alcuni esempi in cui rientrano anche le istituzioni più piccole, come le gallerie.
Se i badili di Jonathan non sono ancora caduti è perché il terreno sabbioso che li sostiene è molto più forte e solido di quel che sembra. Proprio come l’arte, un ambito lavorativo apparentemente secondario che può, invece, dimostrare di avere un valore non poi così trascurabile. Avevamo già parlato in molti articoli delle problematiche occupazionali nel mondo della cultura all’interno della “nuova normalità” di cui ora facciamo parte e la mostra alla galleria White Noise, in questo contesto, lascia aperta una questione: il lavoro dell’arte resta ancora inutile?

Jonathan Vivacqua, Pausa, dettaglio

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