25 settembre 2020

Adam Budak racconta la 7ma Biennale Gherdëina

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Prosegue a Ortisei, in Alto Adige, la settima edizione della Biennale Gherdëina. Ne abbiamo parlato con Adam Budak, curatore dell'evento da tre edizioni

In questa lunga intervista Adam Budak (1966, Cracovia) ci racconta i suoi tre anni come curatore della Biennale Gherdëina, a Ortisei, in provincia di Bolzano, e in particolare l’edizione 2020, la 7ma, intitolata “– a breath? a name? – the ways of worldmaking” (fino al 20 ottobre), che conclude una trilogia di mostre sulle “politiche dell’appartenenza”.
Da novembre Adam Budak, dopo gli anni trascorsi a Praga come Direttore della Národní Galerie, la Galleria Nazionale, sarà Direttore artistico della Kestner Gesellschaft di Hannover, una delle una delle più antiche e rilevanti associazioni artistiche tedesche.

Lei è curatore della Biennale Gherdëina per la terza edizione consecutiva. Da un’iniziativa nata nel 2008 da operatori locali nello spirito portato nel 2008 da Manifesta 7 in Trentino – Alto Adige (di cui, ricordiamo, Lei era uno dei curatori), Biennale Gherdëina si è attesta come un evento capace di portare artisti di levatura internazionale, potenziando un evento nato per indagare e valorizzare l’operato degli artisti locali. Quali fattori hanno contribuito, in particolare, a questa evoluzione?

«Grazie alla Biennale Gherdëina sono tornato nel Trentino-Alto Adige dove oltre 10 anni fa ho co-curato Manifesta 7. Sono estremamente grato ai fondatori della Biennale Gherdëina e ai suoi organizzatori, e in particolare a Doris Ghetta, direttrice della Biennale, per questo generoso invito e per la fiducia continua nel mio lavoro. Lo apprezzo molto.

Per Manifesta 7 il principio della Speranza, secondo la visione del filosofo Ernst Bloch, aveva costituito la cornice di progetti artistici che lavoravano sul rapporto tra la tradizione locale e quella globale, mentre adesso per la Biennale Gherdëina 7 la riflessione sul vernacolare e su questo particolare momento della nostra vita sociale, politica e culturale si svolge sotto il principio della Responsabilità. È un principio che regola la nostra vita e i nostri comportamenti come homo faber, cioè come fabbricanti del mondo, e ci rende consapevoli del nostro posto qui e ora, delle relazioni tra di noi, tra noi e l’ambiente che ci circonda e tra noi e il nostro futuro. 

Dopo “From Here to Eternity” (Biennale Gherdëina 5, 2016) e “Writing the Mountains” (Biennale Gherdëina 6, 2018), la Biennale Gherdëina 7, intitolata “– a breath? a name? –  the ways of world making”, è l’ultimo e conclusivo capitolo di una trilogia sulle politiche dell’appartenenza. I campi tematici precedentemente trattati –  il significato del patrimonio culturale, la ricerca di un posizionamento strategico nella storia, l’elogio del comune, l’onnipresenza della natura e della sua “industria” – ricevono un inquadramento sociale e politico senza tralasciare gli aspetti più poetici, spirituali ed esistenziali, sviluppando così ulteriormente la complessità del linguaggio vernacolare con un’attenzione alla continuità e alla perseveranza della tradizione, alla sua necessaria riscrittura e disfacimento, nonché al suo potenziale trasformativo.
La Biennale pone al centro dell’attenzione l’importanza e la consapevolezza di un gesto politico in un processo attivo di creazione del mondo, il suo fattore dinamico che garantisce una resilienza della cultura e della natura, modella l’unicità vernacolare di un luogo e manifesta una visione coraggiosa e matura di un futuro a venire.
Tre sono i capitoli sulla sociologia dell’incontro e la strategia della pluralità che costituiscono il nucleo della realizzazione di nuovi mondi: ecology of others – sul rilancio della relazionalità (secondo la riflessione di Philippe Descola sul legame natura-cultura); in praise of hands – sull’arte del tatto (questo capitolo è fortemente ispirato al sogno di Henri Focillon sull’autonomia dell’arte rispetto ai materiali, alle tecniche e ai segni); e infine the cloud of possibles – sulla diffusione dell’entusiasmo e sul potere della differenziazione (facendo riferimento a quello che Maurizio Lazzarato definisce “il passaggio da un rapporto capitale-lavoro a uno capitale-vita”)».

Maria Papadimitriou, Disco for one, 2020. Installation. Biennale Gherdëina 7. Courtesy of the artist. T.Sorvillo / L.Guadagnini
La situazione generata dalla pandemia ha portato delle modifiche nell’impianto precedentemente previsto per l’edizione 2020? In caso, in che termini?

«Le circostanze della settima edizione della Biennale Gherdëina sono particolarmente impegnative. La crisi pandemica ci ha reso consapevoli della vulnerabilità dell’uomo e della natura. La resilienza diventa un’urgenza; responsabilità condivisa e umiltà diventano elementi fondamentali nel gestire le relazioni interpersonali e nel reagire a questa situazione. La 7ma Biennale Gherdëina riflette queste preoccupazioni come sfide nei processi attivi di ricreazione del mondo. Celebrando l’etica dell’affermazione, manifesta un approccio positivo o, per dirlo con le parole della filosofa Rosi Braidotti: «Dobbiamo prendere in prestito l’energia dal futuro per rovesciare le condizioni del presente. Si chiama amore per il mondo. […] Immagina ciò che non hai ancora; anticipa ciò che vogliamo diventare. Dobbiamo dare alle persone il potere di desiderare, volere, aspirare a un mondo diverso, per estrarre dalla miseria del presente relazioni e pratiche gioiose, positive, affermative. L’etica guiderà le politiche affermative». Inoltre, la Biennale intende l’arte come un processo terapeutico e ne sottolinea i poteri curativi e trasformativi. Molti progetti artistici, presentati dagli artisti prima dello scoppio del Coronavirus, si sono evoluti durante la pandemia, acquisendo nuovi significati. Alcuni sono apparsi profetici, proclamando già in epoca pre-pandemica un’urgente necessità di ripensare il nostro rapporto nei confronti della natura e del clima, così come il rapporto con l’Altro (come, ad esempio, “DISCO FOR ONE” dell’artista greca Maria Papadimitriou). La settima edizione della Biennale propone una visione dell’ecologia come concetto espanso che contiene un nuovo tipo di intimità critica come modello comportamentale di convivenza responsabile con il nostro ambiente naturale e con gli altri esseri umani. 

La prima parte del titolo di questa Biennale, “- a breath? a name? –”, è una citazione di una poesia intitolata “Tabernacle Window” (da “Die Niemandsrose”, una raccolta di poesie del 1963) del poeta nato in Romania e di lingua tedesca Paul Celan (1920-1970). Ho riletto questa poesia durante la pandemia e nel periodo che coincideva con i drammatici eventi di violenza a sfondo razziale avvenuti negli Stati Uniti. Entrambi i casi, collegati alla crisi respiratoria, hanno sottolineato l’importanza e la precarietà del respirare e dell’atto in sé che è l’essenza della vita. “I can’t breathe”, pronunciato senza speranza da George Floyd, è diventato un simbolo di resistenza; qui il respiro indica la morte e lo sfinimento, e rappresenta la fine del ciclo della vita. I recenti eventi hanno inoltre riacceso l’attenzione sulle politiche dell’identità, riaprendo la discussione sul significato di appartenenza e di identificazione come parametri di giudizio. Pertanto, la (corretta) “denominazione” come fattore di riconoscimento acquista un’importanza fondamentale. Entrambi, l’atto di respirare e l’atto di nominare, costituiscono un quadro di natura politica, gli elementi essenziali dell’”ecologia degli altri” e i modi di fare il mondo, o piuttosto i modi di rifare (la pluralità de)i mondi. Si tratta di questioni estremamente rilevanti per l’attuale condizione di divisione e disgregazione delle nostre società.

Inoltre, uno dei punti di partenza della Biennale è la messa in discussione della divisione tra natura e scultura  – una caratteristica fondamentale del pensiero occidentale dalla fine del XIX secolo, operata dall’antropologo Philippe Descola. Descola cerca di abbattere il divario tra natura e cultura, sostenendo un’antropologia liberata dal suo antropocentrismo e da questa concezione dualistica di natura e cultura come regni di fenomeni distinti. Descola immagina una visione del mondo radicalmente nuova, in cui esseri e oggetti, umani e non umani vengono analizzati sulla base delle relazioni che intercorrono tra loro. La Biennale sostiene una “ecologia delle relazioni” che mira a “ricomporre natura e società, umani e non umani, individui e collettivi, in un nuovo assemblaggio in cui non si presenterebbero più come divisi tra sostanze, processi e rappresentazioni, ma come espressione istituita di relazione tra entità multiple il cui status ontologico e capacità di azione variano a seconda delle posizioni che occupano l’una rispetto all’altra.”
Uno dei progetti più significativi in ​​questo senso è il progetto collaborativo dell’artista tedesco Antje Majewski “Sculpture Forest Sanctuary”, un piccolo santuario nel bosco che racchiude alcune sculture donate dagli artisti. Tali sculture sono state realizzate con materiali che possono essere trovati nel bosco stesso e che con il tempo si disgregheranno fino a diventare parte dell’ambiente. In cambio della loro donazione, gli artisti riceveranno la parola del proprietario del bosco affinchè il terreno rimanga intaccato dall’azione diretta dell’uomo per 1000 anni (o se possibile per sempre). “Sculpture Forest Sanctuary” diventerà un piccolo campo di sperimentazione in cui è possibile studiare l’adattamento ai cambiamenti climatici. Quali piante, quali insetti svaniranno, quali sorgeranno, quali sono i più resistenti? 

Anche “Mirror Tree” dell’artista svedese Henrik Håkansson, un’installazione site-specific nel Parco Naturale di Vallunga è una rappresentazione poetica di una simbiosi natura/cultura. Si tratta di una lastra di metallo quadrata lucidata a specchio al centro del quale si trova un albero di Pinus Cembra. Il paesaggio attorno e il cielo si riflettono, permettendo allo spettatore di osservare le condizioni mutevoli della natura circostante. Unendo la crescita organica con la progettazione architettonica, questo atto di riorientamento percettivo apre a nuove implicazioni per l’esperienza soggettiva, secondo la quale ci troviamo intrappolati in mondi sempre più multipli – quelli della biotecnologia, dei media, della farmacologia, della legge e dell’economia, così come in nature non umane. La natura, in questa luce, propone un luogo di inaspettata estraneità e di divenire, rendendo manifesto il suo essere in continua evoluzione».

Henrik Håkansson, A Tree Mirrored (Pinus Cembra), 2020. Installation. Courtesy of the artist and Galleria Franco Noero, Torino. Ph. T.Sorvillo / L.Guadagnini
Spazio pubblico e progetti partecipativi sono elementi chiave nella storia della Biennale Gherdëina, quali sono le caratteristiche dello spazio pubblico oggi, soprattutto in un contesto come quello di Ortisei, con una forte identità locale che si confronta con forti flussi turistici stagionali provenienti da tutto il mondo, soprattutto dall’Europa? Su quali aspetti lavora, in particolare, la Biennale?

«La sfida dello spazio pubblico (o per essere più precisi – di un’arte nello spazio pubblico) è connaturata al suo stesso essere pubblico – un luogo espositivo all’aperto, disponibile, senza pareti, uno spazio che, pur non essendo di proprietà di qualcuno, appartiene a tutti. Come tale, è uno spazio di confronto e di negoziazione, e come tale richiede una particolare cura e attenzione, oltre che pazienza, adesione e tolleranza.
Con le sue sette edizioni che dal 2007 si svolgono in Val Gardena, la Biennale Gherdëina si è già assicurata un posto speciale nella percezione del pubblico locale e regionale, autorità politiche comprese. La sua forza e la sua specificità risiedono nell’importanza data al contesto specifico, alla sua tradizione e al luogo, alla cultura e alla natura. Nata come modesta piattaforma per una produzione artistica prevalentemente locale, la Biennale Gherdëina è presto diventata un evento di dimensione globale. Più di 30 artisti di varie generazioni, che praticano diversi media e provenienti da tutto il mondo sono stati invitati a questa settima edizione della Biennale – da Vancouver a Los Angeles, dagli USA a Barcellona, da Londra e Manchester fino ad Atene, e ancora da Vilnius, Praga, Varsavia,  Berlino, Vienna – in un dialogo che comprende anche artisti italiani, come ad esempio Marinella Senatore, Marcello Maloberti o Paolo Icaro, e della Val Gardena, tra cui Hermann Josef Runggaldier, Aron Demetz, Gregor Prugger o il poeta e artista visivo Franz Josef Noflaner. La maggior parte delle opere in mostra è stata realizzata in loco, utilizzando l’artigianato locale e ispirandosi al luogo, alla tradizione culturale e al contesto socio-politico. Il ruolo ambizioso della Biennale è quello di generare un polilogo tra il vicino e il lontano, il qui e il là, l’adesso e il dopo, il nostro e il vostro.
Le recenti edizioni della Biennale si sono basate su una strategia di progressivo avvicinamento volta a ricontestualizzare il vernacolare attraverso la lente di artisti provenienti dalle varie parti del mondo. L’impegno degli artisti della Biennale con il luogo è fondamentale e si basa sempre su una profonda conoscenza e ricerca che dimostra la curiosità e la passione degli artisti per questo spazio. La ricca tradizione locale della Val Gardena – l’artigianato dell’intaglio del legno e il linguaggio unico del ladino, tra gli altri – è estremamente potente e stimolante, per questo è considerato un materiale prezioso per progetti artistici site-specific. La tradizione e il processo di rilettura costante e continua della tradizione ci aiuta a capire da dove veniamo e ci fornisce il sapere per affrontare il presente e il futuro. Gli artisti coinvolti nella Biennale esprimono il loro interesse per le questioni socio-politiche, culturali e comunitarie e forniscono la loro nuova visione di ciò che ci sembrava ormai familiare e scontato. La 6° edizione della Biennale Gherdëina “Writing the Mountains” ha prestato particolare attenzione alla lingua ladina e alla tradizione linguistica della regione. La raccolta di poesie commissionata all’artista-poeta italiano Alessandro de Francesco ha costituito il punto di partenza per le opere di altri artisti. Anche in questa ultima edizione della Biennale la lingua gioca un ruolo significativo. L’identità visiva si basa sulle “martellate” di Marcello Maloberti, brevi slogan in quattro lingue, tra cui il ladino, che collegano poesia e politica, e che vengono diffusi in tutta la Val Gardena. Uno degli artisti della Biennale è Franz Josef Noflaner (1904-1989), artista e poeta gardenese il cui verso poetico “Die Sonne scheint, so lang die Sehnsucht weint” adorna l’installazione di Luminaria dell’italiana Marinella Senatore e i cui dipinti (soprattutto degli anni ’60 e ’70) che celebrano la convivenza tra la natura e l’uomo sono esposti nella Sala Trenker, accanto all’installazione femminista dell’artista polacca Paulina Ołowska o all’opera politicamente impegnata dell’artista kosovaro Petrit Halilaj o dell’artista altoatesina Ingrid Hora». 

Pavel Büchler, OPEN and Lang/Baumann, Beautiful Entrance #8, 2020. View at Hotel Ladinia, Biennale Gherdëina 7. Ph. T.Sorvillo / L.Guadagnini
Come ha scelto gli artisti invitati alla Biennale Gherdëina 2020, nella quasi totalità di levatura internazionale? 

«Molti sono stati i fattori coinvolti nel processo di selezione: la rilevanza rispetto al tema della Biennale, la pratica usata (spesso un’arte comunitaria, collaborativa e impegnata, con un potenziale performativo, ma anche una scultura o un’installazione di grande formato che dialoga e interagisce con lo spazio pubblico) e ancora i materiali utilizzati (soprattutto il legno in linea con la tradizione locale), così come la potenzialità di generare un dialogo con il locale (compresa la tradizione artistica, l’architettura vernacolare e la natura). Sono interessato alla relazionalità e alla contestualità – quindi la mia intenzione era quella di costruire il maggior numero possibile di relazioni per far scaturire nuovi significati e scambi tra generazioni, geografie, generi e tradizioni». 

Installation view at Teatro Pilat, Ortisei. Opening Biennale Gherdëina 7, 08.08.2020. Sharon Lockhart, Pine Flat, 2005 (Courtesy of the artist, neugerriemschneider, Berlin and Gladstone Gallery, New York and Brussels). Ph. Tiberio Sorvillo
“- a breath? a name? – the ways of worldmaking” è il titolo della  Biennale Gherdëina di quest’anno. Come vede il “respiro futuro” dell’arte? In una recente intervista il curatore italiano Marco Scotini ha affermato: “l’arte non è necessaria in un mondo sanificato”, che cosa ne pensa?

«L’arte porta con sé una forza incredibilmente vitale e come tale, con la sua resilienza e vulnerabilità, è oggi più che mai necessaria e benvenuta. Ci fornisce l’ossigeno di cui abbiamo bisogno per respirare, per sopravvivere e per partecipare attivamente a questo mondo complesso. L’arte ci dà il coraggio di articolare i nostri punti di vista e di provocare un cambiamento. Dobbiamo approfondire un’autoriflessione istituzionale e ridefinire il ruolo delle istituzioni artistiche nelle nostre società per rendere le istituzioni più rilevanti, dinamiche e capaci di portare avanti la missione dell’arte. Spesso le istituzioni non riescono a mantenere il ritmo dell’arte, quindi devono essere trasformate in piattaforme aperte, dove l’arte può comunicare la propria polifonia – formale e tematica, e abbracciare il pubblico con la sua capacità di empatia e cura.
Come ho detto prima, l’attuale crisi pandemica ci ha reso consapevoli della nostra fragilità (dei limiti corporei e dei sistemi immunitari); sono emerse questioni etiche, legate al senso di responsabilità collettiva e individuale e alla cultura della convivenza. L’arte – anche quella esposta alla Biennale Gherdëina – è il riflesso di una sensibilità verso l’Altro e la natura, di un’umiltà nei confronti delle nostre identità e dei nostri ruoli sociali. Come tale, respira l’aria di positività critica che permette l’inclusione e la diversità». 

In che progetti La vedremo impegnata nei prossimi mesi?

«Nei prossimi mesi mi trasferirò da Praga ad Hannover per assumere la direzione della Kestner Gesellschaft, una delle più antiche e grandi associazioni artistiche tedesche. Hannover è la culla dell’avanguardia europea e non vedo l’ora di esplorare la ricca e innovativa tradizione di questa città». 

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