06 dicembre 2025

Quella di Warhol non è mai la “solita zuppa”: l’eredità di un soggetto iconico

di

La lattina più famosa dell’arte torna protagonista: denigrata, celebrata, reinterpretata. La sua metamorfosi mostra quanto la visione di Warhol continui a plasmare l’immaginario pop, in bilico tra cucina e mercato

«La grandezza dell’America sta nell’essere la prima nazione in cui i più ricchi comprano le stesse cose dei più poveri». Così si legge in The Philosophy of Andy Warhol (From A to B & Back Again), pubblicato nel 1975. Warhol stava parlando della Coca-Cola, sottolineando il carattere estremamente “democratico” della bevanda. Quando, verso la fine degli anni Cinquanta, Andy Warhol sente l’esigenza di distanziarsi da Roy Lichtenstein e da James Rosenquist, avvia la ricerca di un soggetto che potesse condensare un nuovo sentire, rompere la tradizione con un elemento nuovo, aprendosi alla cultura di massa. E allora gli viene in mente proprio l’alimento che consumava ogni giorno: «Io le bevevo, avevo lo stesso pranzo ogni giorno, per vent’anni». Parlava della zuppa preconfezionata Campbell’s, ovviamente.

Con Campbell’s soup cans, nel 1962, Warhol accosta 32 tele in polimero sintetico raffiguranti tutte le varianti di zuppa Campbell’s in commercio. Una sistematica ripetitività – con la sola etichetta che si erge come esile baluardo distintivo – che permette di affacciarsi alle tematiche dei processi meccanizzati delle produzioni di massa e di un’individualità soffocata dall’uniformità, avviando una riflessione sul processo di mercificazione dell’arte. Il tutto generando una semplice sovversione che modificherà la traiettoria dell’arte, elevando un semplice oggetto di consumo a capolavoro, puntandovi sopra una lente che non proietta alcun giudizio di genere, ma riproduce asetticamente e meticolosamente. Un oggetto “povero” e quotidiano che diventa icona.

Come ha osservato lo stesso Marcel Duchamp: «Se tu prendi la lattina della zuppa Campbell e la ripeti cinquanta volte, quello che ti interessa non è l’immagine visiva. Quello che ti interessa è il concetto che ti ha portato a mettere cinquanta lattine di zuppa Campbell sulla tela».

Indipendentemente dal labile equilibrio di un Warhol funambolo, in bilico fra una società dei consumi che viene denunciata e un sistema capitalistico di cui l’artista costituiva un ingranaggio attivo, che lascito conserva oggi la celebre zuppa nell’immaginario collettivo?

Si avviano, in concomitanza, due processi antipodici. Da un lato, la Campbell’s Co. ha dichiarato di aver licenziato il numero due dell’azienda per la pubblicazione di una registrazione effettuata di nascosto, in cui il vicepresidente Martin Bally avrebbe definito «Merda per poveri» le zuppe del colosso statunitense. E proprio l’ironia di “una merda in lattina” ci riporta alla reinterpretazione, dall’altro lato e a distanza di migliaia di chilometri, dello stesso elemento.

Siamo a Vercelli e i fratelli Costardi hanno riletto un’idea avuta del celebre gastronomo e fotografo torinese Bob Noto: mettere in lattina non solo l’estetica pop ma i piatti della tradizione. Firma dei fratelli sono infatti le Costardi’s Condensed, che contengono varie tipologie di risotto. «La prima nasce nel 2012 ed era un risotto al pomodoro. L’idea ci viene perché a Torino c’era l’esposizione del Guggenheim dedicata a Andy Warhol, e ci chiesero di curare la parte gastronomica. Volevamo qualcosa di diverso». 18 anni di attività con un menù tutto a base di riso, che unisce ora cibo e arte trasformando la lattina di Warhol nuovamente in elemento di consumo, stavolta d’eccezione.

Non è sicuramente la prima volta che Andy Warhol si lega in qualche modo alla sfera culinaria. Infatti, è proprio l’artista che, nel 1959, decide di stampare a proprie spese Wild Raspberries, il surreale ricettario dell’amica Suzy Frankfurt, illustrando ogni ricetta contenuta all’interno.

Ma tornando alle zuppe: da un lato un elemento iconico che entra nella cronaca tacciato come cibo per poveri, dall’altro lato la sua reinterpretazione, passando dalla lente warholiana, che lo rende cibo d’élite. Un ironico dualismo che viaggia sulla riflessione di Warhol correndo da un estremo all’altro, caricando e scaricando lo stesso elemento di significati che sposano paradosso, disincanto e ironia. Peculiarità che, peraltro, tanto caratterizzano la produzione di Warhol.

Nell’operazione di Christian e Manuel Costardi, assistiamo a un utilizzo del “codice di Warhol” che non ridefinisce il riso come opera d’arte – almeno non in senso tradizionale – ma lo inserisce in un immaginario visivo che appartiene tanto al design quanto al consumo quotidiano. In questo modo, la rappresentazione della lattina Campbell’s torna a essere gesto visivo immediato e condiviso, pur mutando i propri intenti e i propri significati.

I fratelli Costardi. Crediti: La Cucina Italiana

D’altro canto, ad Art Basel Miami Beach, la galleria Lévy Gorvy Dayan presenta il celebre ritratto di Muhammad Ali realizzato da Warhol nel 1977. L’opera – un acrilico e serigrafia su tela, con firma dell’atleta sul retro – ritorna in vendita per 18 milioni di dollari. La scelta di proporre questa tela si colloca in un momento delicato per un mercato dell’arte che, dopo anni di contrazione, sembra cercare segnali di ripresa. Gorvy, infatti, sta cercando di portare alla grande fiera «Il meglio del meglio»: in questo caso, proprio il pezzo di Warhol, che ha guadagnato 10 milioni di dollari nel 2019, 6,45 milioni di dollari nel 2020 e 18,1 milioni di dollari nel 2021. E giusto il mese scorso, un ritratto di Brigitte Bardot degli anni ‘70 è stato venduto per 16,7 milioni di dollari sulla piattaforma d’aste Fair Warning, superando la stima massima di 12 milioni di dollari e rappresentando il risultato più alto per un’opera di Warhol quest’anno.

Un’ambivalenza che viaggia però sullo stesso binario, con un Warhol sulle sfere della dimensione elitaria, da un lato per il collezionismo, dall’altro per una sua rilettura, ma che nel caso delle lattine mantiene saldissimo il proprio gancio al quotidiano, all’arte che si fa cucina, a quella stessa lattina che oggi più che mai torna cibo povero.

Questa tensione rende esplicita una delle domande che Warhol aveva già posto: che cosa distingue un oggetto d’arte da un oggetto di consumo? Quando l’immagine diventa elemento commerciale, quanto resta della purezza dell’elemento in sé e quanto invece si trasforma in nostalgia estetica?

In un 2025 in cui il nome di Warhol viene evocato tanto nelle sale d’asta quanto sugli scaffali dei supermercati (o delle dispense), l’eredità dell’artista ci appare più fluida e ambivalente che mai, all’interno di un paradigma che tiene conto non solamente del prezzo ma anche di funzione e contesto.

Alla fine, oggi, la vera rivoluzione pop forse non risiede più nel soggetto – sia esso il pugile, la lattina, il celebre marchio – ma nella continuità di un linguaggio visivo che attraversa epoche, mercati, reputazioni, confermando ancora una volta la grandezza di Warhol come un ponte tra arte e vita quotidiana, nel lusso o nella povertà.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui