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Gagosian chiude a San Francisco. Quella stessa città che, nel 2016, aveva rappresentato un faro nell’arte contemporanea – con la Silicon Valley popolata, via via, dalle blue-chip internazionali che sorgevano intorno a SFMOMA – inizia adesso a perdere avamposti. Anche i grandi piangono? Parrebbe di sì.
Non è un segreto, d’altronde, che un nome come Marian Goodman, a ottobre, abbia chiuso lo spazio di Londra a causa della crisi sanitaria e delle incertezze legate alla Brexit; che David Zwirner, quest’estate, si sia ritrovato a tagliare la sua forza lavoro; e che anche Sotheby’s, secondo il Wall Street Journal, abbia congedato circa 200 collaboratori. L’elenco di stravolgimenti sarebbe ancora lungo, se pensiamo che perfino il miliardario Ronald Perelman ha messo all’asta gran parte dei suoi capolavori per far fronte al periodo difficile: le colonne vacillano e, con loro, tutto il sistema dell’arte.
Ma torniamo alla chiusura di San Francisco. Ad Artnet News, un portavoce spiega il motivo di questa scelta inaspettata: «Per consolidare e rafforzare la presenza di Gagosian in California, stiamo concentrando i nostri sforzi con sede a Los Angeles, per il momento». E in effetti il mega-dealer starebbe orchestrando una mirata espansione su Los Angeles, rilevando parte della ex sede della Marciano Art Foundation che aveva chiuso lo scorso febbraio. Non solo, perché – in questo marasma – il gigante dell’arte contemporanea continua a gestire in modo sorprendente altri 15 spazi tra New York, Los Angeles, Londra, Parigi, Roma, Ginevra e Hong Kong (e in piena crisi, a settembre, ha aperto una nuova sede ad Atene).
Insomma, non tutto è perduto, ma sembra che la previsione di Jerry Saltz dello scorso aprile si stia comunque avverando: il COVID-19 ha davvero amplificato i freni delle gallerie di cento volte e quelle «non preparate» stanno chiudendo rapidamente. Quello che nessuno si aspettava, però, è che questo discorso potesse investire anche i big, in un effetto domino che ha bussato ben presto anche ai piani alti della filiera.