05 aprile 2024

Voyage à Calais: l’opera di Alessio Patalocco arriva al MABOS

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L'opera Voyage à Calais di Alessio Patalocco, precedentemente rifiutata dall'amministrazione della città francese, arriva al MABOS Museo d'Arte del Bosco della Sila. L'artista ci racconta la sua storia

Voyager à Calais, Alessio Patalocco, ph. Andrea Samonà

«Oggi più che mai bisogna parlare di accoglienza, continuare a coltivare quella tenerezza per tutte quelle persone che si sentono respinte o che fuggono da guerre, disagio economico o sociale», commentano all’unisono l’artista Alessio Patalocco, la direttrice del MABOS Elisabetta Longo e il suo fondatore, Mario Talarico.

Alessio Patalocco, classe 1982, è artista, architetto e professore presso l’Università per stranieri di Perugia. Con la collaborazione di Amnesty International Italia l’opera Voyage à Calais andrà a impreziosire il Bosco della Sila che già vanta di più di 35 opere site-specific, prodotte da artisti nazionali e internazionali ospitati negli anni nelle residenze artistiche. Sostenuta nel 2017 dall’ONG, l’opera sarebbe dovuta essere originariamente collocata nel porto di Calais, in Francia, non solo in qualità di luogo della “Giungla” dei migranti ma anche come crocevia di scambi culturali e commerciali, fu invece rifiutata dall’amministrazione locale, mostrando un chiaro e netto gesto politico di chiusura contro il tema dell’accoglienza.

Voyages à Calais è un lungo muro di metallo composto da 13 lastre attorcigliate su loro stesse, che ricordano un nastro piegato. Da un lato è verniciato con spray acrilici bianchi e neri, dall’altro, invece, è stato lasciato arrugginire all’aperto. «Ricorda le barche dei migranti, ma anche un nastro che racconta una storia per immagini ispirate all’arte rupestre, ma realizzate con mezzi primitivi dell’arte di strada» afferma Patalocco.

L’artista Alessio Patalocco ph. Andrea Samonà

Alessio Patalocco: l’intervista

Come nasce l’idea di realizzare questo progetto?

«Nel 2016 Fulvio Leoni, già docente di architettura a Roma Tre (dove io ho studiato, mi sono formato come dottore di ricerca e ho insegnato) mi ha chiesto, per conto di Amnesty International, di fare un’opera d’arte di strada che parlasse di uno dei grandi temi di cui Amnesty si occupa. Ho subito risposto che volevo tanto parlare di migranti a Calais: da poco era stata smantellata la “giungla” a Calais, il luogo in cui i rifugiati si accampavano prima di imbarcarsi per Dover, verso l’Inghilterra.

Fulvio ha accettato subito e da lì abbiamo iniziato a lavorare; ero partito con l’idea di relazionarmi con il porto di Calais in quanto “porta Nord” dell’Europa continentale e di lavorare con sagome e figure dal significato molteplice, leggibile a più livelli.
L’idea di un muro che diventa nastro e, infine, resti di una imbarcazione è uscita fuori quasi subito e la tecnologia più adatta mi è sembrata quella del ferro presso piegato a freddo: simile a come si fanno le barche dei migranti e diretta espressione della mia città (Terni) in cui la lavorazione dei metalli è particolarmente praticata. Il lato “esterno” di questo muro/nastro/barca ospita delle pitture a spray ispirate alle opere d’arte rupestre e realizzate con un linguaggio da arte di strada».

Cosa rappresentano le figure rupestri?

«Le figure parlano di violenza, morte, fame e sole, poi di viaggio e di incontro con altre figure umane che, però, hanno un sole in testa. Queste ultime figure giudicano le prime e le condannano, senza repliche e senza motivo.
Raccontano una storia, di fatto, che accade e condivide un momento di sofferenza come una riflessione sulla paura e sul giudizio di alcuni nei confronti degli altri. Le figure sono incomplete: ho smesso di dipingere quando Calais, di fatto, non ha più accettato l’opera».

Dopo il rifiuto dall’amministrazione della città di Calais, che effetto fa poter finalmente esporre l’opera?

«È bellissimo: finalmente c’è qualcuno che mi accetta e che accetta l’opera per quello che è, che pensa sia il caso di denunciare situazioni di questo tipo e che si arrabbia con me quando qualcuno dice “rimandarteli a casa loro”.

Finalmente c’è una comunità che sa come comportarsi di fronte alla sofferenza dell’altro e che sa quanto può essere crudele l’indifferenza, il voltarsi dall’altra parte o il giudicare senza conoscere le storie degli altri. C’è qualcuno che, come te, pensa sia giusto fare una cosa del genere e si mette al tuo fianco per farti capire che non sei da solo…».

Parlare di accoglienza e immigrazione, oggi più che mai, è un’urgenza del tutto contemporanea e attuale. Come ci si sente a lavorare con queste tematiche che sono purtroppo considerate ancora controverse?

«Ci si rende conto, innanzitutto, che il dibattito in Italia si è appiattito e che si trattano i migranti come un numero. Poi sorge una domanda: ma perché devo avere paura di chi cerca un riparo, una casa e invece non devo averne di chi non vuole che parli di genocidio?».

Anche la direttrice Longo ha risposto ad alcune domande riguardo l’acquisizione dell’opera.

L’opera di Patalocco porta con sé un messaggio importante, sono presenti nel parco altre opere che riflettono sul tema di accoglienza, immigrazione e razzismo?

«L’opera di Alessio Patalocco è stata accolta, come ha ribadito il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury, non solo dal nostro museo ma dalla Calabria, da sempre territorio di migrazione ma anche di accoglienza e integrazione. Il Mabos non ha mai vincolato fortemente gli artisti in residenza, indirizzandoli verso l’interpretazione di tematiche specifiche, eppure è certamente capitato che qualcuno di loro abbia affrontato il tema della migrazione, come urgenza propria ma anche del territorio in cui ha operato – tra questi, Emanuela Lena con la sua “Io Sono straniero” (2019). Per non parlare delle fotografie recentemente acquisite, il piccolo nucleo di Mario Giacomelli della serie fotografica “Il canto dei nuovi emigranti” che si ispira alla poesia di Franco Costabile e che ripercorre, come la poesia, tutti i vuoti di paesi dell’entroterra calabrese già segnati, nel 1985, dallo spopolamento e dalle grandi migrazioni».

Avete in programma di acquisire altre opere che ragionano si questi temi

«Certamente. L’Area Gioacchino da Fiore in cui è stata collocata l’opera donata da Patalocco è, proprio in virtù del suo dedicatario, uno spazio del pensiero dove le contaminazioni presenti e future hanno il compito di produrre un risveglio delle coscienze e aprire dibattiti su temi e questioni prioritarie della nostra epoca. Quindi abbiamo in programma di accogliere altre opere o ospitare operazioni che sappiano sostenere questa nostra nuova esigenza».

Credits Isabella Marino

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