10 giugno 2023

Massimiliano Gioni racconta i primi 20 anni di Fondazione Trussardi in questa intervista

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E l'occasione è "Dramoletti", la prima antologica, drammatica e sognante, dell'artista Diego Marcon ospitata fino al 30 giugno 2023 al Teatro Girolamo di Milano

Diego Marcon Ludwig, 2018 [still] Video, CGI animation, color, sound loop of 8’14’’ Credit: © Diego Marcon, Courtesy Sadie Coles HQ, London

La Fondazione Trussardi festeggia 20 anni di attività nomade, di mostre coinvolgenti che hanno riattivato luoghi spesso nascosti o sconosciuti della città di Milano attraverso la forza di coesione e riscoperta dell’arte. Anche in occasione di questo anniversario, la presidente Beatrice Trussardi e il curatore Massimiliano Gioni non si sono smentiti, presentando al pubblico la mostra personale di Diego Marcon “Dramoletti” presso il Teatro Gerolamo: un melodramma surreale, inquietante e ipnotico. Abbiamo parlato con Massimiliano Gioni di questo ultimo progetto, del suo approccio curatoriale, del suo rapporto con la città e di questi anni di progetti assurdi quanto estremamente contemporanei, complessi e stratificati.

Ritratto di Massimiliano Gioni, Ph. Marco De Scalzi
Ritratto di Massimiliano Gioni, Ph. Marco De Scalzi

Com’è nato l’incontro con Diego Marcon? Cosa ammira del suo lavoro?

Diego Marcon era uno degli artisti che avevamo invitato a partecipare nella nostra mostra digitale “Viaggi da camera” nel marzo del 2020, durante la pandemia, quando abbiamo creato un progetto online invitando gli artisti a raccontarci gli spazi che li circondavano in quel momento di chiusura forzata. Diego ci aveva mandato un piccolo film, molto semplice e al contempo inquietante e fragile, come molte delle sue opere. Prima di allora, avevo conosciuto il suo lavoro all’epoca del Premio Maxxi e poi c’è stata la bellissima conferma alla Biennale di Venezia dell’anno scorso.

Com’è stato concepito e costruito questo progetto? Avevate già scelto l’artista e poi avete pensato alla location, o viceversa?

Pensavamo al Teatro Gerolamo da molti anni: è un luogo bellissimo e molto speciale, una specie di teatrino in miniatura che incapsula anche cent’anni di storia della letteratura, dell’arte e del costume di Milano. Basta guardare i poster sulle scale: Carlo Emilio Gadda e Umberto Simonetta, Luigi Veronesi e le marionette dei Fratelli Colla, Juliette Greco e Edoardo de Filippo… Non eravamo mai riusciti a fare una mostra lì perché il teatro è ancora attivo, con una sua programmazione ed era difficile riuscire a trovare un mese libero per mettere in scena una delle nostre mostre. Finalmente le stelle si sono allineate e siamo riusciti ad avere accesso al teatro. Quindi in questo caso abbiamo invitato Marcon a pensare a una mostra per questo luogo. Da subito avevamo in mente “Ludwig”, la sua bellissima video-animazione, per la sala centrale del teatro non solo perché è un’opera con una bellissima colonna sonora che gioca con il melodramma, ma anche perché con quel titolo mi faceva pensare al “re folle”, Ludwig di Baviera, che al teatro e al sogno di un’arte totale aveva dedicato la sua vita, sperperando le ricchezze della sua nazione, fino a essere deposto per la sua follia… E poi quelli di Marcon sono pupazzi – magari ormai digitali o di celluloide o cera – ma pur sempre marionette o pupazzi e quindi perfetti per questo luogo che sembra un piccolo carillon impazzito.

Installation view, Teatro Gerolamo, ph. Andrea Rossetti, courtesy Fondazione Nicola Trussardi, Milano

Per lei quali sono i criteri imprescindibili di scelta curatoriale per realizzare queste mostre che si fanno tutt’uno con lo spazio che le ospita?

Non credo ci siano regole precise e il bello è che continuiamo a cambiare quindi ogni volta è come ripartire da zero. Di solito scegliamo artisti che hanno raggiunto una certa visibilità nel mondo dell’arte e dei professionisti ma che con le nostre mostre vengono proiettati in una dimensione più ampia: per questo scegliamo artisti il cui lavoro non sia autoriflessivo ma piuttosto che ci possa dire qualcosa sul mondo che ci circonda. E poi cerchiamo sempre un elemento di meraviglia e scoperta, sia nell’opera sia nella scelta del luogo. E ci deve essere anche un elemento di assurdità o complessità, che dia alla mostra un senso di necessità e di conquista, se vuoi. Ci deve essere anche un cortocircuito tra l’opera e il luogo: devono elettricizzarsi a vicenda.

In questi 20 anni di progetti itineranti a Milano, com’è cambiato, secondo lei, il clima artistico della città? Come sono cambiati gli spazi pubblici?

Non è certo stato solo merito nostro ma la città è cambiata: mi sembra più aperta, cosmopolita, curiosa e interessata all’arte e alla cultura. Rispetto all’arte, con il nostro lavoro abbiamo cercato di rendere l’arte e la cultura più accessibile: ingresso sempre gratuito, pubblicazioni gratuite regalate in migliaia di copie, orari estesi fino a tardi e la possibilità di scoprire luoghi altrimenti spesso chiusi e che abbiamo anche restaurato e messo a norma. La nostra è sempre stata una vocazione pubblica e credo che questo atteggiamento abbia portato buoni frutti. Andare per gallerie e musei mi sembra ormai sia normale per tanti milanesi, non è più un lusso d’élite, ed è una bella soddisfazione aver contribuito a questa trasformazione.

Che rapporto ha lei con la città di Milano?

Ci venivo in treno da ragazzino, da Busto Arsizio. Persino quando “bigiavo”. E poi ha avuto un ruolo fondamentale nella mia educazione artistica. Il PAC – ricordo ancora una mostra sull’arte povera quando avevo credo 15 anni – e il vecchio CIMAC, le collezioni di arte moderna in cima a Palazzo Reale, all’epoca sempre deserte e a ingresso gratuito, e poi la Galleria d’Arte Moderna a Villa Reale e Brera. Per non dire poi delle gallerie private, queste un po’ più inaccessibili perché nascoste in appartamenti privati all’epoca e dove si entrava con un po’ di timore, ma che di nuovo regalavano mostre gratuite ed accessibili a tutti. Ogni sabato si andava a Milano in treno e mi sentivo al contempo parte ed escluso da un mondo che mi sembrava bellissimo. Con Beatrice Trussardi – anche lei in fondo cresciuta in “provincia” a Bergamo – ci siamo immaginati una fondazione che reinventasse la città e aprisse porte e portoni…

Ci saranno altri progetti in occasione di questo importante anniversario?

Abbiamo appena aperto questa mostra quindi un po’ presto per raccontare altro. E poco più di un mese fa eravamo a miart con una torta-omaggio di Maurizio Cattelan e una conversazione con Beatrice Trussardi e Patrick Tuttofuoco per raccontare la Fondazione.

Diego Marcon, Il Malatino, 2017 [still]
16 mm film, colour, silent dur: 23 min, looped Credit: © Diego Marcon Courtesy Sadie Coles HQ, London
Qual è il progetto realizzato con Fondazione Trussardi a cui tiene di più? Ha qualche aneddoto da raccontare?

Gli aneddoti sono tantissimi, troppi… Io dico sempre che il bello – e il folle – della Fondazione è che ripartendo ogni volta da un nuovo spazio e da un nuovo artista, bisogna reinventarsi ogni volta e si sviluppano conoscenze che uno userà una sola volta nella vita: Come costruire una casa di pane con baguette di due metri? Come far galleggiare centinaia di coperte termiche su una piscina scoperta? Come far convivere 40 animali bianchi nello stesso luogo? E tante tante altre scommesse piuttosto improbabili. Il bello della Fondazione Nicola Trussardi è che dice Sì ai progetti più assurdi. E questo è molto apprezzato dagli artisti e dal pubblico. E posso dire – senza piaggeria – che è possibile perché Beatrice Trussardi ha grandissima fiducia negli artisti. E poi abbiamo un piccolo grande team, con Barbara Roncari, production manager, che è sempre pronta a tutto.

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