11 gennaio 2022

Nicomola degli specchi: Antonietta Raphaël

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Una mostra che restituisce i frammenti di un corpus di opere molto articolato e di una vita intensa, piena, operosa e devota all’arte: quella di Antonietta Raphaël. Alla Galleria Nazionale

Antonietta Raphael

Ultima di dodici fratelli, Antonietta Raphaël, nel lessico familiare la chiamavano Nicomola, nasce il 29 luglio del 1895 in «un piccolo paese» lituano, Kowno (attuale Kaunas), «quasi un villaggio, dello shtetl ebraico dell’Europa dell’est». Ventinovenne, dopo la morte della madre e dopo un lungo periodo parigino, si trasferisce come sappiamo a Roma – sua città adottiva – dove, nel 1925, incontra Mario Mafai con cui si inizia un lungo sodalizio umano e intellettuale.

La Galleria Nazionale, Antonietta Raphaël. Attraverso lo specchio, ph. Monkeys Video Lab

Legata a quella Scuola di via Cavour, così aveva battezzato Longhi la casa-studio in cui Raphaël e Mafai vanno a vivere nel novembre del 1927, un luogo di ritrovo per artisti e letterati (tra questi Scipione, Sinisgalli, De Libero, Ungaretti, Falqui e Mazzacurati), Raphaël è punta di diamante di una ricerca plastica che mira a un equilibrio mentale e materiale, a un recupero di stilemi bizantini e a mio parere anche etruschi, a una nuova visione d’infinito, di erosione del bello, di morbido e graffiante sentimento del tempo. «La parola finito mi fa paura», avvisa l’artista. «Non la uso quasi mai. Lavorerei su di una scultura o su di una pittura di una certa dimensione che mi impegna molto per dei mesi senza finirle, perché finita per me sembra una parola pronunciata dal Giudice: la morte».
L’eccezionale opportunità di guardare da vicino il lavoro di questa nostra protagonista della scultura, tra le più preziose del primo Novecento in Italia, ci è data, oggi, dalla felice esposizione che la Galleria Nazionale le dedica nelle sale di via Aldrovandi dove, ad accoglierci è, poco prima di salire le scale e di seguire l’itinerario espositivo, un impareggiabile gesso patinato del 1962-1963, Il riflesso nello specchio più esattamente, il cui titolo rimanda a quello scelto per far da viatico alla mostra: “Antonietta Raphaël. Attraverso lo specchio” (luogo in cui e da cui vedere il mondo), curata da Giorgia Calò e Alessandra Troncone – l’evento è organizzato in collaborazione con l’Istituto Lituano di Cultura e con l’Ambasciata di Lituania in Italia.
Nel personalissimo percorso espressivo di Raphaël, donna «misteriosa e affascinante, dura e inflessibile, affettuosa e al tempo stesso lontana e distante» (Appella), la scultura domina incontrastata: le figure «hanno sempre un peso, una fissità da idolo sacro» aveva puntualizzato Lorenza Trucchi in una nota d’arte del 6 novembre 1960: sono rime petrose cariche di pastosa carnalità, aperte a primitivismi e a astrazioni della mente (della memoria) in cui si incastrano sentimenti, si collaudare materiali, si modellano i segreti fragili e fugaci dell’esistenza.

La Galleria Nazionale, Antonietta Raphaël. Attraverso lo specchio, ph. Monkeys Video Lab

Dopo quel favoloso riflesso nello specchio («ho cambiato questo titolo che prima era La toilette»), opera costruita «su un vecchio gesso che era originariamente La Cattedrale», in mostra, al primo piano, abbiamo tutta una serie di lavori plastici – tra questi Autoritratto (1937), lo straordinario Ritratto di Katy Castellucci (1938), Narciso (1942), Mafai con i pennelli (1945), Testa di ragazza (1945), la magnetica Salomè (1969) – in cui forte è il racconto del mondo privato, «abitato dai volti e dai gesti di Miriam, di Simona, di Giulia» (Zuliani), come pure il rumore e l’odore dell’avanguardia, filtrata da una nota rapida e ripida e sicura, d’un’espressionismo trasognante, tanto quanto deciso, assoluto, risoluto. «Questa mostra restituisce i frammenti di un corpus di opere molto articolato e di una vita intensa, piena, operosa e devota all’arte», avvisa Cristiana Collu, Direttrice della Galleria Nazionale. «Racconta di un’artista che ha detto la verità, in modo olimpico, animale senza illusioni, con ferocia e con determinazione, quella che ha speso nelle lotte dei suoi incubi (sempre definiti sogni) e quella che ha profuso per plasmare la materia, dura come quella della pietra e del palissandro o tenera come l’argilla o la pasta di colore sulla tela».

La Galleria Nazionale, Antonietta Raphaël. Attraverso lo specchio, ph. Monkeys Video Lab

Sulla balaustra di cerniera che collega le due ali del piano, una linea del tempo racconta, dal 1895 al 5 settembre 1975, racconta via via alcune tappe fondamentali – anche tristi, come quella dei provvedimenti per la difesa della razza italiana del 17 novembre 1938 – che la vedono coinvolta in prima persona: nel 1926 nasce la primogenita Miriam e nel 1928 Simona, nel marzo 1929 è assieme a Mafai Scipione Oppo e Zeveri alla Prima mostra del Sindacato Laziale Fascista (Palazzo delle Esposizioni), nel 1930 nasce Giulia e nel 1935 «Mario e Antonietta si sposano con rito civile», nel 1948 è ammessa alla XXIV Biennale di Venezia con il gesso Le tre sorelle (1947), nel 1954 la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma acquisisce l’opera Ritratto di una donna (1928) ne sono alcune.
Ci sono, poi, tra alcuni materiali documentari conservati in teca (il passaporto inglese rilasciato alla Raphaël nel 1924, un libricino autografo di Isaac Rosenberg che con Jacob Epstein sono stati incontri decisivi, il catalogo completo dell’opera grafica a firma di Appella del 1976 uno straordinario Ritratto – matita su carta – del 1928), il disegno e la pittura.

La Galleria Nazionale, Antonietta Raphaël. Attraverso lo specchio, ph. Monkeys Video Lab

«Curiosamente Roma, città museo sede di cento accademie dedicate al defunto classicismo umanistico, è diventata nei dipinti della Raphaël zingaresca, orientale, evanescente», ha avvertito Moravia nel 1971, quasi a rimarcare quell’intuizione che aveva portato già Alfredo Mezio a individuare nel lavoro dell’artista quell’alone di «romanismo contaminato da un folklore orientale» che accompagna ogni costruzione, ogni efficace e necessaria analisi di un colore che risale lo spazio e il tempo.
«Sono andata a vedere Kandinsky nella Galleria d’arte moderna. È molto bello! I suoi colori sono tipicamente russi, ma non quelli bizantini, ma piuttosto quelli folcloristici» si legge in una illuminante pagina di diario datata 19 maggio 1958. «Mi ricordo quando ero bambina e il mio povero papà mi portava con lui in Ehaterinoslav, dove abitava la mia sorella maggiore Ester. Ebbi (così) l’occasione di conoscere quei bellissimi colori fantastici ma zuccherati, verdolini, rosei diluiti, rosso sigillo, viola di violette, giallo canarino ed anche il nero. È errato pensare che questi sono colori bizantini, che sono bianchi su fondo terra bruciata o oro, bleu cupo ed oro ed anche rosso più corposo. Parimente è errato dire che i miei colori somigliano a questi due grandi artisti, Kandinsky e Chagall. I miei colori; hanno qualche cosa di bizantinismo. Ma soltanto spiritualmente, se così si può dire. Gli occhi allungati, lo sguardo che cerca di capire e la bocca un po’ tumida che sembra respirare e ne ha timore. Questo è tutto. Ed è poco per dire che sono bizantina».

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