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«Piuttosto che andare alla Biennale, state a casa». Luca Rossi ci spiega il perché della sua ultima provocazione
Arte contemporanea
È un progetto collettivo, anche se il frontman è sempre uno. È un’operazione artistica, sebbene talvolta sembri assumere più le sembianze della critica d’arte. È uno spirito “radicato in ognuno di noi”, tuttavia le ultime performance si sono configurate come delle conferenze stampa davanti a una platea vuota, in cui il protagonista arriva addirittura a rispondere a domande poste da un interlocutore immaginario. Insomma, Luca Rossi è un’entità imprendibile e indefinibile, eppure presente nell’arte italiana da ormai 15 anni, con frequenti incursioni nel mondo della stampa, delle mostre, delle gallerie e delle performance. Il linguaggio è ben consapevole di quel sistema da cui non si sente rappresentato, che stando a quanto afferma l’ha anzi ostracizzato proprio in ragione delle scomode verità di cui è portatore. Il messaggio è chiaro, va dalla denuncia di un sistema viziato e non meritocratico alla persistente mancanza della critica, che sarebbe stata concausa, negli ultimi decenni, dell’emergere di artisti non meritevoli, poco originali o significativi. Date queste premesse, non potevamo che aspettarci una azione radicale in occasione dell’imminente Biennale di Venezia, a cui Luca Rossi risponde con il suo Home Pavillion. «Tutto ciò che è “ufficiale” e sale sul piedistallo della rappresentanza ha le gambe mozzate in partenza. Viviamo in una realtà densa e “supercomunicata” che esprime una complessità che è sempre in anticipo rispetto a qualsiasi opera d’arte», si legge sulla pagina in cui è possibile acquistare il biglietto d’ingresso al padiglione, ovvero il videotutorial per comprendere «come 26 dei migliori artisti moderni e contemporanei sono già a casa tua, ma non li vedi». E noi abbiamo voluto capirci qualcosa di più.
Con l’iniziativa Home Pavilion hai lanciato un input a suo modo virtuoso, ovvero quello di prestare maggiore attenzione a ciò che ci circonda quotidianamente piuttosto che essere sempre immersi nel fragore e “nell’altrove”. Tuttavia, la storia ci insegna anche che la relazione e l’incontro possono essere momenti necessari alla creazione. Insomma, siamo proprio sicuri che sia meglio starsene a casa piuttosto che andare alla Biennale?
«La possibilità di vedere concretamente HOME Pavilion dentro la nostra casa, tramite un video tutorial a cui lo spettatore può accedere, non esclude il fatto che poi si possa uscire di casa e incontrare le persone. Anzi credo che l’esercizio di “allenare nuovi occhi” e riconoscere effettivamente 26 grandi artisti moderni e contemporanei in casa nostra, ci possa portare ad una sensibilità nuova e diversa quando siamo chiamati a visitare le mostre più convenzionali e incontrare persone».
L’Home Pavilion ha dei presupposti molto chiari e sicuramente è una forma di reazione politica al sistema dell’arte e alle sue dinamiche. Insomma, possiamo considerarlo una forma di boicottaggio della Biennale?
«Sin dal 2009 ho sempre cercato progetti complementari e mai prettamente critici verso il sistema. Credo che oggi sia assolutamente necessario partire da una lettura critica nei confronti del sistema dell’arte, proprio perché tutto quello che sale sul piedistallo della rappresentazione rischia di avere già le gambe tagliate in partenza, ed essere estremamente debole e mimetico rispetto ad una realtà contemporanea estremamente complessa. Se oggi ti approcci all’arte contemporanea senza questo senso critico si rischia fatalmente di scivolare verso il design d’interni e quello che nel 2009 ho definito “IKEA evoluta”. L’IKEA evoluta consapevole non è un problema basta che questo non diventi uno strumento di speculazione nel mercato e con la consapevolezza. Così facendo stiamo perdendo enormi opportunità per rendere l’arte contemporanea una palestra e un laboratorio per sperimentare e allenare nuovi occhi».
Insomma, non c’è qualcosa che salveresti della Biennale o di manifestazioni analoghe?
«Negli ultimi 15-20 anni queste manifestazioni sono diventati contenitori estremamente caotici. Si esce da questi luoghi, come avviene alle fiere, storditi da centinaia di opere spesso molto prevedibili e ormai globalmente omologate. Quello che si può salvare non è il “cosa” ma il “come” si possono fruire queste manifestazioni. Ossia rallentando il passo, sviluppando senso critico, chiedendosi “quello che stiamo vedendo come può avere un valore per la mia vita?”. Tutte le volte che visito queste manifestazioni mi chiedo perché vengano invitati centinaia di artisti, quando invece si potrebbero invitare dieci o venti artisti da approfondire con maggiore profondità ed efficacia».
La storia di Luca Rossi ha compiuto proprio in questi giorni 15 anni. Quante persone conta ad oggi il progetto (se queste sono membri quantificabili)?
«Il progetto conta più di 100 componenti, ma il gruppo ha i contorni poco definiti; molti componenti fanno parte del sistema dell’arte sotto altri ruoli, e altri sono completamente anonimi. Ma la cosa più interessante è che molte persone, argomentando progetti e opere d’arte, usano alcuni concetti critici sviluppati da “Luca Rossi” negli anni, dimostrando effettivamente come “chiunque può essere Luca Rossi”, anche senza che queste persone siano totalmente consapevoli. Questo fenomeno realizza concretamente quel processo di disintegrazione dell’identità monolitica e “maschilista” tipica del Novecento e della concezione convenzionale di “artista genio assoluto” ».
Maggiori soddisfazioni ottenute durante questo percorso? Ci vuoi raccontare qualcosa?
«La soddisfazione più grande è sempre il prossimo progetto che contiene tutte le energie spese negli anni precedenti. Il 24 aprile 2024 inaugura la doppia personale di Luca Rossi e Giulio Alvigini nella nuova sede bolognese della Galleria Magazzeno Art Gaze. Mentre da una prospettiva più generale la soddisfazione più grande è stato passare da un procedimento critico e autocritico ad una progettualità alternativa e non convenzionale che effettivamente cerca di ripensare l’idea di museo, il ruolo di artista e il concetto di opera d’arte. Questo potrebbe aprire scenari estremamente interessanti per le istituzioni, ma anche per i singoli artisti che possono effettivamente applicare la propria attitudine in modalità nuove e maggiormente aggiornate al nostro presente».
Ad esempio?
«Non a caso dal 2016 stiamo gestendo anche un progetto di Art Academy e Coaching on-line, dove la critica d’arte diventa una forma di allenamento per il singolo artista esattamente come avviene per lo sport. Nel caso del tennis, per esempio, dove un talento all’età di 18 anni necessita di un costante allenamento per potersi migliorare. Forse dobbiamo uscire dalla concezione dell’artista solitario e geniale in grado di fare tutto da solo, e passare ad una progettualità artistica che possa nascere da un confronto critico aperto e leale. Solo in questo modo l’arte contemporanea può recuperare, nel dibattito pubblico, quella centralità che merita e diventare anche uno strumento politico e sociale concreto».
Infine, una domanda che mi sono sempre posta è: se Luca Rossi è un’operazione artistica che basa la sua ricerca e il suo agire attraverso la denuncia della mancanza dello spirito critico all’interno del sistema, non potevi piuttosto intraprendere la specifica carriera di critico d’arte e portare tu stesso una maggiore critica all’interno dell’arte, eventualmente contribuendo a migliorarlo?
«Io non sono un critico d’arte, sono un artista che ha dovuto stimolare quel contesto critico da cui poi è discesa la sua progettualità. Luca Rossi ha ucciso prima di tutto quello che ero prima. Mi sono dovuto suicidiare per poi rinascere. “Luca Rossi” è piuttosto una fusione e confusione di tutti i ruoli del sistema, proprio per poter essere indipendenti dal mondo dell’arte e poter bypassare alcune problematiche. Allo stesso tempo mantengo sempre il desiderio di collaborare e di confrontarmi con il sistema dell’arte, perché il punto non è distruggere un sistema quanto parteciparvi con nuovo senso critico. Penso che dopo 15 anni sia chiaro come la mia azione sia mossa da un’autentica passione e come la mia critica sia prima di tutto un gesto d’amore verso gli artisti e i protagonisti del sistema dell’arte. Visto il clima di ostracismo in cui ancora sono costretto a muovermi penso che questa mia attitudine costruttiva e positiva non sia stata ancora accolta o venga abilmente ignorata proprio per non affrontare alcuni problemi che sono ormai, sempre di più, sotto gli occhi di tutti».