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Quando l’errore nasconde la risoluzione: Enej Gala alla A plus A di Venezia
Arte contemporanea
di Elisa Gremmo
A metà tra il desiderio di farcela e il lasciarsi cadere, le marionette di Enej Gala non si danno per vinte e trasformano i loro errori in soluzioni. É proprio questo il meccanismo che permette di continuare a imparare e che dà il nome alla personale di Gala a Venezia. Accompagnata da un testo di Marta Papini, la mostra immerge il pubblico in un labirinto, su un tavolo rotondo, in pellicce, in chiodi e nella mitologia, per terminare in un “esame d’ammissione”. Abbiamo raggiunto l’artista nato a Lubiana, nel 1990, per farci dire di più.
Il titolo della mostra è Nevereverevereverevereverever learn, un riferimento distorto all’imparare. Come assoceresti questo meccanismo di sbagli-correzioni alla tua pratica artistica?
«Il titolo implica un confronto diretto con un’ipotetica fine di errori da correggere e cambi di strategie per evolvere. Quante volte bisognerà imparare che non si imparerà mai? Però è proprio questo che ci mette in moto: un obiettivo impossibile, come una carota davanti al naso dell’asino che trascina il carro. L’esagerazione di questa piccola tesi può diventare una specie di ridicolizzazione del pessimismo estremo, un’istanza sulla quale potremmo soffermarci più spesso. Siamo in un periodo storico in cui essere pessimisti risulta facile e la distanza ironica può servire per ristabilire un equilibrio funzionale. Sbagli e correzioni fanno parte di come percepiamo e costruiamo il mondo molto prima di evolvere in qualsiasi altra pratica specifica mentre il miglioramento, di solito, viene misurato con l’abbreviazione dei tempi tra i primi e le seconde. Nell’arte non è sempre così: permettersi di esplorare i paradossi di questo meccanismo è stato basilare per sostenere un’alimentazione sana della mia attività artistica».
Nelle tue opere c’è sempre un’allusione all’imperfetto, allo sbagliato, al precario e al non funzionante. Perchè?
«Semplificando Žižek: il vero messaggio emerge dal fallimento della sua comunicazione; ciò che si esplora rimane sempre in dubbio e ciò che si scopre non è ciò che ci si aspetta. Personalmente non vorrei credere nella perfezione e nemmeno nello sbaglio, d’altronde, la situazione generale si sta rivelando sempre più precaria. Penso che la funzione dell’arte sia quella di minare i concetti prestabiliti, le percezioni e le definizioni ovvie di tutto ciò che ci circonda. Ma è fattibile in un mondo dove siamo saturi di dubbi e sembra che le uniche certezze le abbiano gli estremisti? Qui si entra subito in un terreno molto precario di retoriche conflittuali. Già nella serie Oggetti riparati mi interrogavo sulla funzione della funzione: sbagliato e perfetto dipendono sempre dal contesto e la storia ci ha insegnato innumerevoli volte la loro immaterialità. Quindi, provo a giocare con la malleabilità di questi concetti nei limiti che definiscono i materiali stessi, tuttavia, i lavori sono meno unilaterali di quanto l’artista li possa concepire. Il materiale stesso è sempre intriso di significato, per questo mi interessa soprattutto favorire situazioni in cui – come diceva già Beckett – si fallisce un po’ meglio».
Un riferimento alla pittura, tra le tue opere della personale, è Strike. Si tratta di uno sciopero verso la pittura? Potresti spiegare l’evoluzione del tuo rapporto con questa pratica?
«La pittura mi ha formato: quella di Venezia, dell’Atelier F e del Workshop di Forte Marghera. Perciò, più che uno sciopero verso, direi uno sciopero per: un omaggio alla serietà della pittura che, in questa città – luogo così caro a tanti artisti formati come me all’Accademia di Venezia – viene spesso intesa come una forza vitale ancorata nel profondo dell’esistenzialismo personale di chi la pratica. Fino a quando la nostra percezione di arti visive avverrà prevalentemente attraverso gli occhi, ci sarà un elemento pittorico in ogni medium. I chiodi che solitamente supportano i quadri (assenti in questa occasione), disegnano il ritratto del loro esecutore: il martello usato per inchiodare. Scioperano contro il male causatogli dal martello, mostrando ai passanti la sua forma: tuttavia, alla fine del conflitto, chi soffre di più è il muro. Faccio riferimento anche ai numerosi scioperi degli ultimi anni (soprattutto in Slovenia) e all’inevitabilità dei sacrifici che implica una protesta. Strike è anche un piccolo sciopero contro le istituzioni, il sistema in generale e il mercato dell’arte, che sfruttano la disperazione economica degli artisti, per i quali la pittura spesso diventa un appiglio in termini di mercato piuttosto che di libertà artistica. I chiodi sono uno degli elementi primari e quasi dati per scontati ma tra i primi che hanno permesso di esporre i quadri a parete. Il loro sciopero è anche un raduno per preparare un nuovo terreno e ce ne vorrà di pittura per coprirne le conseguenze».
É impossibile non notare la preponderanza della pelliccia come materiale impiegato. Da cosa dipende questa scelta?
«La pelliccia sintetica è uno di quei materiali che mi attira e che uso da molto tempo, sia per le sue qualità visive/tattili che concettuali. Oltre alla connotazione infantile e giocattolosa, è interessante la fissazione umana nel ricreare le cose pur di averle, anche se finte. Questo materiale è stato ed è tuttora strumentale contro la caccia agli animali e al contempo solleva parecchie questioni sulle problematiche ambientali, come accade anche per altri materiali che si disperdono in microplastiche. Le pellicce in mostra sono tutte scarti di produzione forniti grazie a Mattia Varini e all’azienda Confezioni Grazia di Brescia, che si occupa di produzione di abbigliamento, dunque, queste pellicce derivano e dialogano direttamente con l’ambito della moda. Nel lavoro Wheelbarrow, oltre all’immediata connotazione della pelliccia come status symbol, mi interessava anche la trasformazione qualitativa del materiale in cui la carriola non ha una struttura interna e mantiene la forma solo grazie ai fili da marionetta, aprendo una parentesi sui ruoli degli status symbol come trucchi che tutti conosciamo ma in cui comunque caschiamo lo stesso. In If you haven’t got it in your head you’ve got it in your heels, i colbacchi sono pezzi indossabili con un potenziale performativo, che in questo caso si trovano bloccati in una figurazione pseudo-teatrale che mantiene il racconto attraverso l’assenza del corpo vero. Nella sedia Donor’s seat la funzione viene amplificata fino a risultare assurda, estendendo i braccioli con cui poter donare ancora più sangue. Morbida e calda, quasi morbosamente sessuale, mantiene il donatore comodo davanti alla proiezione del video, ignorante del fatto che il liquido nella testa del Minosaur potrebbe essere quello donato da lui. Il pelo finto diventa quindi una specie di seduttore attraverso il percorso espositivo che, come un peluche dell’infanzia, accompagna l’individuo a familiarizzare con gli oscillamenti tra l’animale, il giocattolo, l’innocente, il colpevole, il kitsch, il primordiale, gli status symbol, il perverso, etc…».
Le figure mitologiche di Sisifo e del Minotauro si fondono in un’unica marionetta intrappolata in un labirinto: una scultura – a confine tra un mondo rosa Barbie e le interiora di un corpo indefinibile – che è anche la scenografia del video in loop Minosaur. In cosa consistono le opere e che cosa ti ha condotto alla loro formazione?
«L’idea era quella di un lavoro gemello ma separabile dal Round table, un close up di un possibile svolgimento all’interno del tavolo, in cui una marionetta si avventura come un insetto all’interno di un fiore per prenderne il nettare. Il fiore risulta carnivoro e il nettare, come l’acido digestivo, mantiene il Minosaur imprigionato nell’infinita fuga dal labirinto. In questo modo, il labirinto si nutre dei movimenti imprevedibili della marionetta, continuando a illuderla ogni volta che il liquido cade dalla sua testa, ritrovandosi con una dose dello stesso che cola fino a riempirla, ri-azionando il suo percorso da capo. Minosaur è una creatura ambigua, non davvero definibile, frenetica, senza sesso, spoglia fino le ossa, bianca come la carta che pian piano si sporca del liquido di cui rimane succube. Un po’ fa pena, un po’ schifo; e forse proprio perché non vuole rappresentare nessuno, in una maniera anche un po’ perversa, mi sembra un ottimo esponente dell’essere umano, che negli ultimi anni è rimasto intrappolato in varie misure restrittive. Filmato nell’estate 2021, è il lavoro che ha unito in collaborazione il videomaker Fabris Šulin e il musicista Tomi Novak. Il motivo archetipico attraverso cui ho unito i due miti greci Minotauro e Sisifo attraverso le letture di Richard Teschner (sulle poetiche fabbricazioni dei suoi mondi teatrali) e sotto l’influente perspicacia di Octavia Butler (nel descrivere la psicologia umana/aliena), si presta a fornire una vita parallela al piccolo mondo distopico installato sopra al tavolo rotondo. Il video e il tavolo sono i primi lavori che avevo pensato per la mostra intorno ai quali tutti gli altri si sono formati al ritmo ansiolitico del ticchettio ipnotico, più veloce e meno preciso dell’orologio artificiale, che accompagna il video e ridonda attraverso tutto lo spazio».
Marionette, Muppets, ingranaggi azionabili con la manovella, c’è molto di un mondo fantastico dell’infanzia. In che modo questo tema, se esiste, si collega alla tua produzione artistica?
«L’infanzia è il periodo in cui ci si confronta direttamente con il mondo, senza preconcetti o pregiudizi, ma è anche il periodo in cui questi si formano. La mia pratica si nutre di sbalzi, tra ingenuità e giudizio, verso materiali, oggetti, tecniche, meccanismi, sistemi, relazioni, etc. Trovo cruciale mantenere soprattutto la sensazione dello sguardo ignorante nel momento in cui vede le cose per la prima volta e cominciano a formarsi delle spiegazioni. Credo che fosse ciò che sfruttavano anche i Muppets, che, nati negli anni ’50 per brevi pubblicità, evolsero nel Muppet Show mandato in onda in seconda serata, diventando il primo show televisivo al mondo per adulti gestito interamente dai pupazzi. I corti in cui apparivano erano molto violenti, i pupazzi si sparavano, si mutilavano, bruciavano ed esplodevano. É per questo che il lavoro Entry exam (exploded Muppets), posizionato alla fine del percorso espositivo, blocca il pubblico togliendo la possibilità di un ultimo sguardo dal balcone. Un cortocircuito o una brusca fine, in cui è lo stesso visitatore a essere assoggettato alle loro condizioni per poter entrare o meno nel club di chi ce l’ha fatta. I Muppets entravano in scena come kamikaze, autodistruggendosi, e hanno avuto moltissimo successo. Quindi, cosa si può imparare da questo? Il percorso della mostra inizia con un invito al tavolo rotondo, in partenza un tavolo da poker successivamente colonizzato dalla struttura labirintica, che non dà spazio al dialogo di chi gli sta intorno, ma consuma l’attenzione con molti trucchi teatrali, pittorici e scultorei per mantenere il gioco in mano. L’osservatore gli gira intorno e lo vede da esterno, mentre alla fine del percorso si ritrova osservato dai Muppets come se fosse all’interno del labirinto, davanti la giuria dell’ultimo esame. Alle sue spalle Off the wrong foot i due burattini che hanno iniziato col piede sbagliato, inchiodati al muro, rimangono crudi e grezzi in uno stato embrionale, pseudo astratto – prenatale – prima dell’infanzia. Sono lì, come per guardare le spalle al visitatore, ricordando anche che lo spazio metafisico in cui esso si trova è interno a un organismo architettonico da cui si potrà uscire solamente tornando indietro (non sostenendo l’esame), perché per andare avanti bisognerebbe entrare nel club esplodendo come i Muppets».