01 dicembre 2022

Quando l’opera si fa tempo: intervista a Federico Gori

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A margine della personale in corso al Museo Archeologico di Taranto, una intervista a tutto tondo con l’artista Federico Gori, che ci parla di una nuova età dell’oro

Di fragilità e potenza

Intervista a tutto tondo con l’artista che ha in corso, fino al prossimo 8 gennaio 2023, la mostra personale dal titolo “L’ETÀ DELL’ORO”, a cura di Eva Degl’Innocenti e Lorenzo Madaro, nelle sale del Museo Archeologico Nazionale di Taranto – MArTA, realizzata nell’ambito del PAC2020 – Piano per l’Arte Contemporanea della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura

“L’Età dell’Oro (la muta)” non è solo il titolo della mostra, ma anche dell’opera site-specific realizzata da Federico Gori al MArTA di Taranto. È un pensiero, una speranza, un rituale. All’interno di una vetrina, su più livelli di vetro trasparente, sono racchiuse 28 esuvie di diversi serpenti: l’opera “L’età dell’oro”. Le pelli ricoperte in oro, argento, bronzo, rame e ferro sono, in parte, la traduzione materiale dei testi descrittivi de “Le Opere e i giorni” del poeta greco Esiodo. Così, dopo il trauma subito in tutto il mondo a causa dell’emergenza pandemica, quest’opera invita a riflettere sulla necessità di credere alla possibilità di stabilire un’armonia generale, una rinascita, finché, come auspicato da Virgilio, “tornerà l’età dell’oro”.

In occasione della sua mostra al museo tarantino, abbiamo intervistato Federico Gori.

Ritratto Federico Gori

Come ti definiresti?
«Molto semplicemente, un artista visivo».

Dove sei nato e dove vivi?
«In Toscana, tra Prato e Pistoia, dove vivo e lavoro».

Quando e come è nato il tuo interesse per l’arte?

«Sinceramente da quando ne ho memoria. Fin da piccolo ero il classico studente con poca voglia di studiare, bravino però a dipingere e a disegnare. Questo mi ha letteralmente salvato. Il momento però in cui si è innescata la scintilla vera e propria è stato grazie alla visita alla Biennale di Venezia del 1993. Ero uno studente delle superiori e, vista l’età, avevo gli ormoni impazziti e molta confusione in testa, ma ricordo quella giornata come un’autentica epifania».

Qual è stato l’incontro più significativo per la tua formazione?

«Forse, proprio perché avvenuto non appena uscito dall’Accademia di Belle Arti, direi Daniel Spoerri. Nel 2002 ho vinto un bando di concorso per una residenza di 3 mesi nel parco di sculture da lui ideato, a Seggiano, sul Monte Amiata. Incredibile passare tutto quel tempo lavorando nello studio di uno degli artisti più importanti dell’ultimo secolo. Ricordo quei 3 mesi come la base su cui è nato tutto il lavoro degli anni successivi».

13.12

C’è stato un accadimento o un incontro così  incisivo da farti cambiare il modo di guardare le cose?

«La visione di Stalker di Andrej Tarkovskji. Dal primo all’ultimo frame. Avevo 25 anni. Da allora, ogni anno in una data specifica non posso fare a meno di riguardarlo».

C’è una mostra (non tua) che ricordi con particolare intensità?
«Rubble and Revelation di Cyprien Gaillard alla Fondazione Trussardi. Straordinaria».

Quali sono gli artisti e le opere che più ti hanno influenzato?

«Ce ne sono moltissimi in effetti, così tanti e così determinanti che quasi mi sento in colpa nel non nominarli tutti. Se però mi limito a quegli artisti che realmente hanno influenzato il mio modo di lavorare mi vengono in mente soprattutto quelli che sono stati importanti durante gli anni della formazione. Penso quindi, tra gli italiani, ad Alighiero Boetti, a Pino Pascali, Piero Manzoni, Giuseppe Penone, Claudio Parmiggiani. Mentre se mi spingo fuori dai confini, i primi a cui penso sono Roman Opalka, Richard Long, William Kentridge e tanta, tanta arte tedesca dell’ottocento e del novecento, Caspar David Friedrick e Joseph Beuys su tutti».

Underground

Qual è la tua giornata tipo?

«Non ho una giornata tipo. O meglio, non ho più una giornata tipo. Da quando sono diventato babbo, 2 anni fa, tutto ciò che poteva somigliare a una routine è completamente evaporato».

Hai dei riti particolari quando lavori?

«Diversi in effetti, come chiudere lo studio a chiave appena vi entro in modo che nessuno vi possa accedere. Ma non saprei se definirli riti. Probabilmente sono più delle piccole manie di cui ho necessità per calarmi nel lavoro».

C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?

«Paradossalmente ciò che manca è proprio spazio per ciò che si può prevedere. Gran parte del mio lavoro va in questa direzione: l’imprevisto, l’accadimento, il cambiamento fortuito o accidentale sono momenti attesi e accolti con grande gioia».

Estinti

Hai mai paura di fare quello che fai?

«Dubbi e timori sì. Paura mai».

Come descriveresti la tua ricerca?
«Il tentativo di controllare un processo di per sé incontrollabile».

Qual è il filo della tua ricerca e le sue pratiche?

«Sono molto affascinato dal tempo, in tutte le sue forme. Utilizzo tecniche e materiali che forzano un cambiamento interno ed esterno al lavoro. Questi cambiamenti, siano essi preventivabili o meno, danno vita all’opera, che trova raramente una sua forma definitiva. Per sua natura infatti essa continua a mutare di fronte ai nostri occhi, si fa tempo».

In quale direzione sta andando la tua ricerca artistica?

«Difficile rispondere. Lavoro solitamente su più serie insieme, e ognuna ha una propria identità, una ricerca specifica e un suo sviluppo formale. Se devo però cercare un filo comune, direi che in tutte è presente una forte componente legata alla ritualità, intesa sia come approccio concettuale che fisico di lavoro sull’opera».

L’età dell’oro

Quali sono gli strumenti preferenziali per lo sviluppo del tuo lavoro?
«I materiali stessi che compongono l’opera e come questi reagiscono al tempo e ai suoi accadimenti».

Con quale artista del presente o del passato vorresti fare un duetto artistico? Un progetto a quattro mani?

«Anche in questo caso la lista sarebbe lunghissima, ma proprio considerando i molteplici fattori che avrebbero reso l’incontro impossibile, rispondo Agnes Martin».

Ogni muro è una porta

Cos’è per te oggi veramente contemporaneo?

«Per quanto mi riguarda è impossibile rispondere senza fare riferimento, più che a una cosa in particolare, alla sensazione che l’essere contemporaneo si porta irrimediabilmente dietro. Proprio come per il mio lavoro, la percezione che ricerco del tempo è più circolare che non lineare, e di conseguenza la visione che posso avere della contemporaneità risulta sempre alterata, come vista attraverso una lente che ne deforma i contorni. Volendo fare un collegamento con la risposta alla domanda precedente, i cicli pittorici più straordinari di Agnes Martin sono quelli realizzati dopo il suo allontanamento dal mondo e dalla contemporaneità. Penso, in particolare, alla serie With My Back To The World. Opere eterne e perciò sempre contemporanee. Ho come la sensazione infatti che l’unico modo per comprendere pienamente la contemporaneità sia il non farne parte, o meglio ancora, avere la capacità di fare sempre un passo indietro o di lato, per guardare le cose da fuori. Se provi ad analizzarla cercando di farne parte finisci sempre per sentirti perso o a disagio».

Revolving Doors

Prossimi progetti?

«L’ultimo anno è stato per me molto intenso. Non ho avuto tempo a sufficienza da dedicare a dei progetti nuovi che non avessero già una data di presentazione. Riserverò perciò il prossimo periodo proprio a questo. Un progetto a cui tengo in maniera particolare riguarda l’attività dei carbonai sulle colline pistoiesi nei secoli scorsi; si tratta di un mestiere “morente”, e proprio questa caratteristica mi ha particolarmente incuriosito e spinto in questa direzione. C’è poi una serie in progress, a cui sto lavorando dal 2017, il cui titolo è Solaterra. Sono 55 opere grafiche in forma di esercizi e meditazioni, e vista la quantità di tempo di cui necessitano per la loro realizzazione, si può considerare come uno di quei casi in cui conosci la data di inizio del progetto, ma non quella in cui sarà completato».

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