01 aprile 2022

Quattro mostre a Milano per il fine settimana dell’arte

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Dai nidi sovradimensionati di Kawamata da BUILDING, passando per la nuova personale di Monica Bonvicini da Raffaella Cortese, arrivando a Loredana Longo da Pantaleone, fino al ritorno di Louise Nevelson da Marconi: quattro mostre da non perdere nell'Art Week End meneghino

Tadashi Kawamata, Nests in Milan Ph. Paolo Riolzi, courtesy BUILDING

Tadashi Kawamata, Nest in Milan da BUILDING

Nato nel 1953 nell’isola di Hokkaido, Tadashi Kawamata ha rappresentato il Giappone alla Biennale di Venezia, nel 1982, ha partecipato alle edizioni 8 e 9 di Documenta, nel 1987 e 1992, e nel 2005 è stato direttore artistico della seconda Triennale di Yokohama. Ora Kawamata arriva a Milano grazie all’invito della galleria BUILDING, per realizzare il progetto “Nests in Milan”, a cura di Antonella Soldaini. A partire dal 31 marzo, lo spazio di via Monte di Pietà e una serie di architetture adiacenti saranno avvolte dalle installazioni site specific dell’artista, tutte realizzate in legno, a rappresentare la forma di insediamento più romantica e anche primaria: il nido.
“Gli interventi che Kawamata ha ideato appositamente per Milano, mirano ad inglobare una porzione del tessuto urbano della città, intervenendo su stabili che, nell’ambito della storia della città, racchiudono un particolare valore civile e culturale. Appropriandosi delle facciate o degli spazi interni o dei balconi o dei tetti, tramite una serie di costruzioni ottenute con l’intreccio di assi di legno che vanno a formare un’inestricabile griglia, a un tempo leggera ma dalla solida struttura, Kawamata ci conduce a una diversa lettura e interpretazione del loro aspetto e significato”, si legge nel testo critico che accompagna l’esposizione.
Così, il nido leggero ed effimero di Kawamata si situa come una sovrapposizione perfetta all’iconicità architettonica del centro storico meneghino, riportando l’attenzione sulla necessità e la volontà di costruire, sia nel regno dell’uomo che nel mondo animale che in quello umano.
Una mostra dove cercare un ideale “riparo” e un scoprire un immaginario poetico che può – come ben sappiamo – principiare anche laddove regna il cemento, creando un miscuglio di stupore e fascino.

Louise Nevelson e Giorgio Marconi all’opening della mostra dell’artista. Studio Marconi, Milano 1973. Foto di Enrico Cattaneo, Courtesy Gió Marconi, Milano

Louise Nevelson alla Fondazione e galleria Marconi

Louise Nevelson – che sarà presente alla 59ma Biennale d’Arte a Venezia a cura di Cecilia Alemani – torna a Milano dopo diverso tempo.
Gli spazi rinnovati della Fondazione Marconi, ospitano infatti la mostra “Out Of Order. I collages Louise Nevelson”. Scultrice ucraina nata nel 1899 e scomparsa nel 1988, naturalizzata statunitense, è attualissima nella cultura della sostenibilità, nell’arte del riciclo di materiali di scarto raccolti dentro e fuori gli ambienti del proprio vissuto. Ricordiamo che nel 1973, Giorgio Marconi, quando l’artista era ancora sconosciuta in Europa, espose nella sua galleria milanese proprio i lavori di questa protagonista del rinnovamento della scultura del XX secolo. Da allora il gallerista ha continuato a promuove la straordinaria arte dell’assemblaggio di Nevelson, che si manifesta anche nei collages, dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, culminando nel 2016 con la mostra a cura di Bruno Corà, dedicata alla rilettura analitica dei collages in dialogo con gli assemblaggi.
Eppure questo nuovo progetto espositivo, realizzato con il supporto della Fondazione Louise Nevelson di New York in occasione del 60mo anniversario della sua partecipazione alla Biennale nel 1962, in rappresentanza degli Stati Uniti, accompagnato dalla pubblicazione di un volume esclusivamente dedicato ai collages, con i saggi del curatore Yuval Etgar e la storica dell’arte tecnica Pia Gottshaller, edito da Fondazione Marconi/Mousse Publishing, apre a nuove interpretazioni originali rispetto alla poetica dell’artista.
“Non so se la definizione di scultrice mi si addica. Faccio collage. Ricostruisco il mondo smembrato in una nuova armonia”, dichiarava Nevelson, che ripeteva: “Il modo a cui penso è il collage”. A noi spettatori non resta altro che ripensare la quotidianità, riscoprendo la sua capacità di attribuire una nuova vita “spirituale” a piccole cose di scarto di una metafisica bellezza. (Jacqueline Ceresoli)

Monica Bonvicini, foto di Ahu Dural, 2020

Monica Bonvicini, Pleasant da Raffaella Cortese

La galleria Raffaella Cortese presenta la terza mostra di Monica Bonvicini (1965), dall’intrigante titolo “Pleasant”, volta ad approfondire l’indagine sul linguaggio, la poesia e lo spazio – elementi da articolare e interpretare a partire da una premessa femminista – che prende il titolo da una serie di nuovi lavori, specifici con frasi e citazioni di donne scrittrici, tra le quali Amelia Rosselli, Lydia Davis, Diana Williams e Natalia Diaz.
L’artista veneziana che vive a Berlino, che conosciamo per le sue incursioni intorno all’ambiguità del linguaggio, produce opere realizzate con media differenti cariche di rimandi storici, sociali, politici e culturali, continua a porci domande irrisolte sul significato dell’arte e i limiti e le possibilità legati all’ideale di libertà.
Così passando dalla casa nella mostra “StageCage” (2021), Galleria Krinzinger, a Vienna basata sulla filosofia del teorico Kenneth Thompson e gli Studies of Tectonic Culture, alla serie fotografica Italians Homes (2019), fino alla performance Give Me Pleasure (2019), tratta dall’opera Turandot di Puccini, anche in questa mostra milanese la caustica Bonvicini non perde il distacco del suo sguardo critico sull’architettura e sul mondo e le costruzioni sociali. In particolare i nuovi lavori indagano lo spazio domestico con una serie di opere eseguite dipingendo direttamente su vetro, che innescano osservazioni sulla percezione e riflessione dentro e oltre la vita domestica tutt’altro che piacevoli (Pleasant).
Molti forse ricordano Up in Arms? (2019), la riproduzione delle braccia dell’artista in vetro rosa tagliato; un materiale della riflessione, fragilità e resistenza insieme. L’artista, Leone d’Oro alla Biennale del 1999 – che piacerebbe alla cinica scrittrice Dorothy Parker – da Raffaella Cortese tira in ballo anche Virgina Wolf: a voi scoprire come.
Tra le altre citazioni in mostra che fustigano i vizi e le virtù della società maschilista, con opere che rimandano al ruolo passivo che la donna ricopre nella cultura patriarcale: Voilà que vient la petite vanité; l’emblematica Why are you so unpleasant I don’t whish you well; e ancora Sei una grande lumaca e Un poco di buon ordine un ordine feroce. (Jacqueline Ceresoli)

Loredana Longo, All my skin, 2021

Loredana Longo, Crash da Francesco Pantaleone

Esplosiva come l’Etna, il vulcano che accompagna la vita della città dove è nata: Catania. Stiamo parlando di Loredana Longo, artista protagonista della stagione primaverile della galleria Francesco Pantaleone, nelle sedi di Palermo e di Milano. Intitolata “Crash”, e curata da Irene Biolchini, in galleria scopriamo opere inedite in ceramica, pelle, componenti automobilistici, video, neon e Lightbox. L’artista ci ha raccontato la genesi di questo progetto, in attesa di scoprire la performance di stasera (h.21)

Una personale nelle due sedi di Francesco Pantaleone, a Milano e Palermo, che si intitola “Crash”. Come é nata la mostra?
«Crash è nel mio pensiero da tempo, ma i tempi si erano fermati in un limbo che non prevedeva impatti. Invece Crash è quell’impatto che sai potrebbe succedere e fai in modo che succeda, per essere padrone del tuo destino. Non importa quante volte percorri quella strada senza sbocco, la ripercorri come se l’esperienza dell’errore sia la tua scelta».

Che cosa vediamo in mostra? Che criterio di scelta avete seguito?
«Sono due mostre collegate fra loro, l’una prolungamento dell’altra, e lo si può percepire dall’utilizzo di pochi elementi che si ripetono come: la pelle color carne; i tagli; le cuciture; alcune parti dell’automobile, customizzate dalla pelle; la ceramica che mi riveste come una seconda pelle; io che vorrei uscire sempre da questa pelle. E poi una scritta che appare nelle due mostre: MY BODY IS NOT NOBODY. Volutamente sgrammaticata, ma mette un dubbio: il mio corpo è qualcuno, è mio o è nessuno?».

A proposito di “Crash”: hai fatto saltare in aria ambienti, hai lavorato con cocci di vetro, hai “scritto” con il fuoco…che cosa cerchi di mettere a fuoco con tutti questi “crash”? Qual é la tua idea di arte?
«Più che un’idea è un pensiero, un insieme di contenuti che mi inseguono o forse sono sempre stati dentro di me. Non so perché penso queste cose, so che non potrei fare altro, una specie di vizio di forma, e la mia forma è una sorta di esplosione continua. Dopo ogni esplosione una ricostruzione, e così via: l’esperienza non è mia maestra, ripercorrere quell’errore è essenziale per farmi sentire viva».

C’è qualche materiale che ancora non hai utilizzato nella tua ricerca, e che vorresti sperimentare?
«Credo di avere utilizzato quasi tutti i materiali, ci sono cose che non ho mai fatto, quelle, le farò».

Quali progetti hai per il futuro?
«Dopo CRASH#1 E CRASH#2 ci sarnno Crash#3-4-5-6…nel mio futuro, la sua evoluzione, il mio corpo che diventa altro ma con la consapevolezza del piacere anche masochistico di essere dentro qualcosa che si ripeterà e dal quale non so se voglia davvero uscirne».

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