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Ripensare il controllo: Giulio Bensasson, al Pastificio Cerere
Arte contemporanea
Viviamo in un’epoca dominata dall’ossessione del controllo, che assume forme diverse ma condiziona sempre di più il nostro quotidiano, tra lockdown, coprifuoco, distanziamento sociale e imposizione delle mascherine. Non è un caso che sia proprio il concetto del controllo il fil rouge che attraversa le due installazioni della prima personale dell’artista Giulio Bensasson, intitolata “Losing control” e aperta fino al 30 luglio alla Fondazione Pastificio Cerere. Curata con puntuale rigore da Francesca Ceccherini, la mostra comincia all’interno dello Spazio Molini, un suggestivo ambiente sotterraneo dove veniva prodotta la semola. Qui, tra pareti scrostate, tubature a vista e ingranaggi arrugginiti l’artista ha collocato Losing Control #1, un’installazione site-specific composta da tre superfici , rivestite di piastrelle bianche realizzate a mano con la tecnica del calco e illuminate dal basso, che si stagliano con il loro innaturale candore in diversi spazi.
Apparentemente uguali ma in realtà sottilmente diverse, rivelano soltanto ad uno sguardo attento piccole imperfezioni, come mosche ed altri piccoli insetti imprigionati in alcune piastrelle. Ma non basta: la prima è collocata in fondo ad uno stretto corridoio dove ristagna un odore di talco, dolciastro e leggermente nauseante, mentre l’ultima, posizionata come una sorta di pilastro in una stanza quadrata simile alla cella di un tempio, è accompagnata da un’installazione sonora eseguita da Filippo Lilli, composta da una campionatura di rumori di insetti che ne aumenta l’effetto perturbante.
“Ho immaginato l’intera installazione come una sorta di percorso filmico, giocato sul contrasto tra pulizia assoluta e sporcizia”, spiega Bensasson. Ritornati nel cortile del Pastificio, la mostra prosegue nei locali del silos, dove ci si imbatte in Losing Control #2, concepita come un percorso opposto. In questi ambienti asettici Bensasson ha collocato un lavoro che si basa sulla corruzione della materia, declinato in tre tappe successive. All’ingresso introduce la mostra l’immagine di un volto con macchie di corrosione, che fa parte dell’archivio Non so dove non so quando (2016): si tratta di una diapositiva corrotta dal tempo e stampata dall’artista. Queste diapositive consunte vengono intese da Bensasson come vanitas del tempo presente, una sorta di nature morte riesumate dalla storia recente alle quali viene offerta una seconda vita. Nella stanza successiva su una sola parete una serie di mensole sorreggono alcuni visori per diapositive, che mostrano immagini ridotte a simulacri, essendo state divorate da muffe e batteri. L’ultima sala è dominata da un grande light box che illumina una sola slide ritrovata in un vecchio studio a Roma e trasformata in una composizione astratta, simile a una lastra di marmo policromo o un dipinto informale. ”È l’immagine più magmatica di tutte, la più astratta e l’ideale conclusione di un percorso che comincia da sotto e finisce qui”, spiega l’artista, protagonista di un esordio molto promettente per consapevolezza e precisione.