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Sharjah Biennale 2025: arte e resistenza nel cuore del Global South
Arte contemporanea
Sharjah Biennal 16, attraverso le oltre 650 opere di cui molte prodotte da Sharjah Foundation, e la presenza di quasi 200 artisti, conferma la sua vocazione a porsi come hub, in particolare per il Global South, luogo di incontro e scambio di approcci utili a disegnare una sorta di mappa delle culture visuali e intellettuali del mondo contemporaneo. Una piattaforma dove s’incrociano pratiche e metodologie artistiche più che un’esposizione di opere, senza dunque ammiccare al mercato, quanto meno in forma esplicita e dichiarata.

Promossa dalla Sharjah Foundation, di cui Hoor Al Qasimi è la presidente oltre che curatrice della precedente edizione di cui l’attuale sembra una spontanea emanazione, la Biennale è stata inaugurata lo scorso 6 febbraio e resterà visibile sino alla prima settimana di giugno 2025. Due importanti appuntamenti sono previsti sino ad allora: il March Meeting, svoltosi già dal 7 a 9 marzo, con conversazioni a più voci, performance e workshop, e gli April Acts dal 18 al 20 aprile, con un programma che prevede incontri, talk, workshop, film screening e live music performance.

Curata a più voci, questa edizione della Biennale si annuncia con il verbo “To Carry”, che nelle sue molte declinazioni vuole essere un invito a riflettere, una domanda che poniamo a noi stessi piuttosto che un titolo: cosa portiamo con noi quando ci muoviamo nel mondo, condizione oggi universale a chiunque? Un’urgenza intima e privata che assume valenza collettiva una volta coniugata a più storie: una casa, un lavoro, una musica, ma anche la consapevolezza delle nostre ferite, le fratture e le perdite, la terra da cui proveniamo, il nostro dialogo interiore e via dicendo. Comprendere, insomma, che è necessario essere vigili di fronte alla precarietà che riscontriamo in luoghi che continuamente mutano e sempre meno ci appartengono, reattivi attraverso la propria origine culturale. Non a caso, una delle declinazioni è proprio “to carry resistance”.

Questo, dunque, l’intento programmatico dichiarato dalle cinque curatrici – l’indonesiana Alia Swastika, Amal Khalaf nativa della città-stato di Singapore, Natasha Ginwala indiana di Ahmedabad, la neozelandese Megan Tamati-Quennell e la turca Zeynep Op – e applicato nella distribuzione di opere e artisti all’interno dell’Emirato di Sharjah, in oltre 17 spazi espositivi tra Sharjah City, Al Hamriyah, Al Dhaid e Kalba. In diverse di queste sedi, per ammissione delle curatrici -ognuna di loro con specifici intendimenti teorici e di restituzione nel tentativo di creare un’offerta individuale e al tempo medesimo collettiva-, le opere provano a intrecciare fra loro un dialogo o al contrario si contrappongono, generando talvolta nel visitatore una discreta difficoltà nella lettura e comprensione dell’insieme, nonostante un accurato apparato didascalico di presentazione dei singoli lavori.

La Biennale diventa dunque uno spazio di orientamento dove s’intersecano storie e vicende attraverso esperienze e culture, tradizioni e rituali che si perpetuano di generazione in generazione, un campo in cui si studia il modus vivendi che adottiamo in spazi che non ci appartengono, le risposte che siamo in grado di offrire. “Studiare” è del resto il verbo che meglio descrive l’approccio necessario a questo insieme di lavori che in alcuni casi sono frutto di collaborazioni fra personalità e operatori culturali che non nascono né si propongono come artisti, diversi infatti i collettivi presenti nell’esposizione.
Da registrare inoltre una rilevante presenza delle immagini, in forma di fotografie, video, documentari, film o all’interno di installazioni multimediali, a conferma del potere di questo linguaggio quando si tratta di raccontare, manifestare, denunciare, tratto che sottolinea l’impegno politico di molti autori, attivisti ancor prima che artisti.

In forma delicata, attraverso il racconto in prima persona di un gruppo di adolescenti che vivono in terre palustri, l’artista kuwaitiana-portoricana Alia Farid descrive in un film documentario la resilienza delle tribù Beni Isad nel far fronte all’impatto delle industrie estrattive nel sud dell’Iraq; il collettivo Concrete Thread Repertoire documenta istanze di resistenza politica in Indonesia, una sorta di “attivismo d’emergenza” composto da poster, t-shirt, articoli, fotografie, documenti; le centinaia di gocce di vetro che cascano dal cielo allestite nella fabbrica del ghiaccio di Kalba dall’artista interdisciplinare indigena australiana Yhonne Scarse rimandano ai test nucleari condotti dagli inglesi in Australia negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.

Gli arazzi della serie Pacha realizzati dalla peruviana Claudia Martinez Garay si riferiscono alla cultura degli indios peruviani e a studi etnografici, in combinazioni di elementi disegnati con pathos e umorismo che appartengono al passato, al presente e al futuro della cultura visuale del Perù; l’indigeno australiano Daniel Boyd nei suoi bellissimi dipinti s’interroga sul modo in cui le genti indigene sono rappresentate nel contesto occidentale e coloniale.

L’atelier Photo Kegham of Gaza rivive nella raccolta di immagini ritrovate che tracciano una storia visuale di Gaza attraverso le vite e le testimonianze di una famiglia e, sempre da Gaza, gli artisti palestinesi Mohammed Al-Hawajiri e Dina Mattar raccontano con dipinti e video la loro drammatica fuga dal campo Al Bureji prima che venisse distrutto dai bombardamenti.

Altra testimonianza di una tragedia, questa volta di natura ambientale, è l’opera di Alualy Kaumakan, artista di Taiwan artefice di un’imponente montagna di stoffe rosse che cascando a terra accolgono il visitatore negli studi della Sharjah Foundation a Al Hamriyah, rappresentazione dell’impatto che il suo villaggio subì nel 2009 al passaggio del tifone Morakot.

Coinvolgente installazione è quella creata dall’artista e ingegnere meccanico messicano Fernando Palma Rodriguez, un enorme serpente ragno disegnato sul pavimento di una sala con terra e altri materiali, ispirato alla cosmovisione indigena Nahua; e, ancora, al passato precolombiano sono riferite le sculture in silicone della peruviana Ximena Garrido-Lecca, che indaga i processi di estrazione ed espropriazione dei terreni a favore delle potenti compagnie minerarie nel Perù.

Discendente del popolo Navajo Diné di Laguna Pueblo, Steven Yazzle realizza dipinti, fotografie, video e installazioni da lui stesso definiti come “astrazioni allucinogene” sulla relazione fra terra e paesaggio; nel deserto di Al Dhaid, oltre le mura dell’Arts Palace risuonano le musiche ambientali create da The Farm Project, sfondo perfetto per l’installazione dell’artista guatemalteca Hellen Ascoli e la sua casa “interrotta” dove telai meccanizzati producono tessuti dai disegni tipici centroamericani in un contesto dove si sovrappongono i concetti di traslazione, trasformazione e spostamento.

Un santuario dall’ambientazione mistica con tanto di candele, terracotte e immagini è quello organizzato dal portoricano Jorge Gonzales Santos ispirandosi alla cultura indigena Taino; minimale eppure imponente è la foresta di canne da zucchero che accoglie il visitatore nella sala dell’artista fiji-australiana Shivanjani Lal, installazione completata da una raccolta di polaroid e un video, dove le scarne aste delle canne alludono alla durezza delle condizioni imposte ai lavoratori delle piantagioni; quel che resta, un enorme magazzino di materiali abbandonati a cielo aperto, a Bagram, luogo dove negli anni Ottanta venne organizzata una base aerea sovietica e dal 2001 al 2021 una base aerea e prigione USA e NATO, è documentato nell’installazione multimediale dell’artista afghano Aziz Hazara con diversi video, fotografie, sculture e musiche.

Nei suoi raffinati ed eleganti dipinti e sculture Rajni Perera esplora questioni connesse all’ibridazione, alle ascendenze e identità culturali migrate ed emarginate, creando esseri come la donna-uccello metafore di un mondo onirico e immaginario dove si mescolano miti e filosofie che si rifanno alla tradizione orale di Sri Lanka. Particolare l’installazione dell’artista thailandese Pratchaya Phinthong, che ha disposto in alcuni spazi pubblici di Sharjah City blocchi di granito secondo il codice tipico dei pannelli solari, trasposizione di un futuro utopico con le sembianze di una reminiscenza archeologica: metafora delle relazioni di potere che legano l’economia globale – e le sue esigenze di creare energia rinnovabile in un’era di crisi climatica – con il mondo postcoloniale.

Womanifesto è un programma di scambio artistico nato in Thailandia che dal 1997 ha promosso mostre, workshop e residenze d’artista con l’obiettivo di facilitare scambi fra artisti, esperienze, pratiche. Concentrandosi sul ruolo delle donne e sull’abbondanza di conoscenze accumulate negli anni, equamente condivise tra uomini, donne e bambini nelle aree rurali e tramandate di generazione in generazione, il focus è posto sul coinvolgimento degli artigiani e sull’utilizzo dei materiali locali e di uno stile di vita tradizionale. Della loro attività pluriennale è esposta una ricca documentazione nel Flying Saucer di Sharjah City, spazio recuperato e rinnovato dalla Sharjah Foundation.

Altra location particolare, l’Old Al Jubail Vegetable Market di Sharjah City ospita una delle installazioni più interessanti composta da video, fotografie, animazione, documenti, realizzata dall’Anga Art Collective, un gruppo di artisti che dal 2010 pensano, si confrontano e creano opere che riflettono e provano a dare risposte ai cambiamenti geopolitici e ambientali in corso nella regione dell’Assam, nel nordest dell’India. I loro progetti vengono realizzati nei villaggi e si presentano come strutture/luoghi di dialogo e confronto fra artisti e comunità locali, attraverso workshop, incontri, e quelle che loro definiscono “artist-led pedagogical explorations”.
Una Biennale eterogenea nelle sue manifestazioni artistiche e non poteva essere diversamente data la conduzione affidata a ben cinque curatrici, eppure compatta nel sostenere la necessità di pensare l’arte come strumento di analisi sociale, spesso megafono di un disagio o quanto meno di un’incertezza – il “cosa” to carry -, serbando buona memoria del passato, vivendo consapevolmente il presente, immaginando criticamente il futuro.