28 ottobre 2021

Venezia è la mia Atlantide: intervista a Yuri Ancarani

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Un luogo in cui l’universo è la laguna, e le isole sono i pianeti. Un ritratto viscerale dell'adolescenza di oggi, firmato da uno dei più curiosi artisti italiani: Yuri Ancarani. L'abbiamo intervistato alla Viennale

Yuri Ancarani, ph. Chiara Cordeschi

Dopo l’esordio nella città protagonista del film, Venezia, il lungometraggio di Yuri Ancarani, Atlantide (2021), approda nella capitale austriaca alla 59ma edizione della Viennale – Vienna International Film Festival. L’artista italiano, figura ibrida e poliedrica nella scena artistica e cinematografica internazionale, conserva del genere documentario solo la modalità di lavoro. Atlantide, infatti, è molto di più. È soprattutto una ricerca visionaria e poetica che compone un ritratto viscerale degli adolescenti di oggi.

Come mai il film si chiama Atlantide?
Il titolo è nato subito, all’inizio del progetto. Mi piace perché è misterioso e genera un’associazione tra Atlantide come città affondata e Venezia come città che sta affondando. Venezia però non è la sola a essere a rischio, secondo me. Ci sarebbero ulteriori motivazioni, ma preferisco lasciare gli altri livelli di interpretazione allo spettatore.

Che tipo di relazione senti tra la tua generazione e quella di Daniele, il protagonista del film?
Non c’è nessuna differenza tra me e lui. Questo film parla di traumi adolescenziali che abbiamo avuto tutti e che sono più o meno gli stessi a prescindere dal tempo che si vive. Quando si diventa adulti si cerca di dimenticare, ma sono proprio quei traumi a farci crescere.

Vedi l’arte come una forma di sublimazione e risoluzione dei propri fantasmi interiori?
Beh sicuramente l’arte è una forma di cura collettiva. La società impone delle regole e l’artista ha il dovere di mostrare nuovi punti di vista e nuove possibilità.

Trovi che la generazione di Atlantide sia caratterizzata da un edonismo distruttivo come fuga dalla realtà?
L’edonismo per loro è come uno stile di vita, e per noi dovrebbe essere sintomatico di un problema. Nel film c’è un momento importante: quando Daniele dice che non bisogna credere nei sogni. Questa frase l’ha pensata davvero Daniele o l’ha sentita da un adulto? Perché tutte le volte pensiamo che non ci sia una responsabilità da parte nostra? Se gli adolescenti non hanno un senso del futuro non è colpa loro.

Atlantide, Yuri Ancarani

Ci racconti il tuo primo viaggio sul barchino?
L’esperienza è stata la medesima di Bianka, la ragazza bionda nel film. Quando l’ho portata sul barchino e ho acceso la telecamera non sapeva nulla di cosa sarebbe successo. La sua gioia e il suo entusiasmo nel film sono assolutamente autentici. Anche io ho provato un’emozione analoga, solo che al mio divertimento si è sostituita la preoccupazione di dover girare riprese stabili sui barchini!

Dopo Atlantide è cambiato il tuo rapporto con Venezia?
Credo sia una di quelle città che tutti abbiamo la sensazione di conoscere, e che alla fine non conosce nessuno. È un luogo inaccessibile per tanti aspetti. Grazie al film ho reso mio quello stile di vita. Ora quando vado a Venezia vado anche io da un’isola all’altra, con i barchini. Per me Venezia è un mondo a sé; l’universo è la laguna, e le isole sono i pianeti.

Qual è la metafora visuale che riassume il film?
È l’acqua. Inizia quando Daniele dice che non bisogna credere nei sogni e nell’inquadratura successiva il rubinetto della fontana comincia a perdere, goccia dopo goccia. Durante il film l’acqua sale inesorabilmente, alla pari della sofferenza di Daniele. L’acqua è incontrollabile.

Alla presentazione del film alla Viennale hai detto di essere cresciuto in una famiglia matriarcale. Com’è stata la tua adolescenza?
Questo è anche un film autobiografico, ho vissuto una situazione molto simile a quella di Daniele. Sono cresciuto in un ambiente dove c’era uno stimolo verso le mie attitudini artistiche, ma contemporaneamente non avevo difese verso una società che cresce i maschi nell’ottica del vincente. È un’idea che non avevo e che continua a non appartenermi.

Atlantide, Yuri Ancarani

Nel film è presente un forte rapporto tra i ragazzi e i dispositivi che utilizzano. Come vedi questa relazione?
Vedo che viviamo in un mondo maschile, iper-tecnologico e malato.

Nel tuo lavoro indaghi spesso situazioni al limite del visibile e dell’ambiguità percettiva. Che rapporto hai con le immagini?
Mi interessano le immagini che parlano, quelle sublimi, contraddittorie, opposte. Sono difficili da raggiungere, ma cerco sempre di avvicinarmici il più possibile. Un esempio in Atlantide è la scena della festa con le grandi navi da crociera sullo sfondo; o quando Daniele guarda la superficie dell’acqua mischiata all’olio del motore. Lì tutto sembra un dipinto.

Atlantide, Yuri Ancarani

La mostra che hai realizzato a Basel nel 2018 era intitolata “Sculture”. Che cos’è per te una scultura filmica?
Oggi passiamo tantissimo tempo di fronte a dei dispositivi che appaiono bidimensionali, ma che ci assorbono totalmente al loro interno. Per i nostri corpi è un’esperienza tridimensionale perché è stare in un altro mondo. In questo senso quello che vediamo come immagine è una scultura. Quando un mio caro amico pittore ha visto Atlantide mi ha detto “questo è un film sul viso di Daniele”; una scultura, appunto.

Potremmo considerare tutto Atlantide come una scultura fluida e inafferrabile?
Credo che questa sia un’interpretazione, uno dei possibili livelli di lettura del film e che mi rende felice.

Yuri Ancarani, Atlantide

Che rapporto hai con gli spazi in cui i tuoi lavori vengono mostrati?
Mi interessa il rapporto tra immagine e spettatore in senso immersivo. Credo che lo spettatore non debba essere fisicamente più grande dell’immagine. Va bene il museo, va bene il cinema, ma in una televisione questo rapporto cambia radicalmente.

C’è però una vera e propria differenza tra la fruizione cinematografica e quella museale?
Sono due mondi diversi, entrambi molto affascinanti. Il cinema è caratterizzato da una maggiore velocità di fruizione, mentre il mondo museale necessita di tempo, è più riflessivo. Credo poi che il cinema di oggi somigli molto un’industria che genera prodotti usa e getta, cosa che nel museo non avviene.

Come ti orienti tra i ruoli di regista, direttore della fotografia e scrittura del film?
Mi danno spesso dell’incompetente. Vengo criticato non per la qualità del lavoro, ma per le scelte che faccio. Io sono un videomaker di formazione, per una figura come questa saper fare tutto è la normalità. Sono sempre stato appassionato di cinema cyber-punk giapponese e quei registi, anche per un problema legato ai costi, facevano tutto da soli. Ad esempio Tsukamoto, nel suo film Tetsuo era regista, direttore della fotografia, montatore e autore delle musiche. Io l’ho trovato sempre incredibile e per me è un riferimento.

Come e perché nel tuo lavoro la musica assume un valore visivo?
Atlantide non è fatto di dialoghi, ma di immagini. Per ognuno di noi la musica a vent’anni è fondamentale, sarà la colonna sonora della nostra vita futura. In questo film non potevo ignorare la musica che ascoltano i ragazzi, era giusto ci fosse.

Che relazione hai con la musica trap? Durante il film è cambiato il tuo rapporto con essa?
La trap mi ha dato accesso al mondo giovanile. Spesso non c’è comunicazione tra adulti e adolescenti e i primi considerano la musica dei secondi come spazzatura, dimenticandosi che hanno subìto la stessa cosa a loro volta. Quando ho iniziato a comprendere la trap ho capito che poteva essere interessante; parla comunque di questo momento storico. Lì ho anche iniziato ad apprezzare il lavoro di Sick Luke, con cui poi è nata la collaborazione per Atlantide.

Quanto facile o difficile è stato il finanziamento per il film?
Beh, è stato difficile all’inizio. Il lavoro si è costruito in divenire con la scoperta della vita di questi ragazzi, dunque non potevo scrivere il film prima. Ho avuto però grande fiducia dal gruppo dei produttori, una famiglia di nazioni che comprende Italia, Francia, Russia, Stati Uniti e Messico.

Com’è il tuo rapporto con l’America Latina?
Atlantide è stato realizzato anche grazie al contributo di Alebrije Producciones, che ha contribuito anche a un film che ho amato molto, Amores Perros. Ho viaggiato a Oaxaca, una zona incredibile dove è stato girato Y tu Mamà También. Diciamo che ho visitato molti luoghi atipici e poco turistici del paese, come la Barranca del Cobre. Ma quello che mi ha più colpito del Messico è l’estrema vitalità delle persone e un’energia palpabile. Avevo la sensazione che fosse un posto pieno di opportunità e continui scambi. Credo che i messicani soffrano un po’ l’esterofilia, come gli italiani. Sono molto ospitali con lo straniero e poco attenti, forse, con gli appartenenti locali.

Esiste una piattaforma o un luogo, in Italia o all’estero, dove sono sempre fruibili le tue opere?
Non mi piace la modalità usa e getta della fruizione su internet, lì manca totalmente quel rapporto dimensionale tra spettatore e immagine di cui parlavo prima. Però a Milano, nel 2023, saranno esposti diversi miei lavori.

Infatti è programmata una tua personale al PAC. Ci puoi anticipare qualcosa?
Sarà un grosso progetto che coinvolgerà due spazi e due città italiane molto importanti per me. Il PAC di Milano e il MAMbo di Bologna. Anche i curatori saranno due, Diego Sileo e Lorenzo Balbi. Il PAC ha degli spazi pensati per la scultura tradizionale; questa sarà una bella sfida. Ma quello che presenterò non sarà modificato. Non mi piace manipolare il mio lavoro in relazione allo spazio. Per me l’opera è una cosa unica.

Yuri Ancarani, ph. Chiara Cordeschi

Che cosa pensi dell’artista che rappresenterà il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia?
Io è da tempo che aspetto che mi chiamino. Ti rispondo così! (ride)

A che età hai avvertito forte e chiara la tua voglia di fare arte?
Avevo dieci anni e mia madre era infermiera. Quando dovevo fare gli esami del sangue mi faceva comodamente il prelievo a casa, solo che un giorno ha sbagliato la vena e quando mi sono alzato sono svenuto. Quella volta si sentì molto in colpa e mi disse “non andiamo a scuola oggi, ma se vuoi ti compro la macchina fotografica”. Io le ho risposto “voglio la telecamera”. Da lì è partito tutto.

Che cosa hai studiato e come sei arrivato a fare cinema?
Sono arrivato nel mondo cinematografico per caso, non era un mio desiderio o un mio obiettivo. Anzi, mi sembrava irraggiungibile. Ho studiato all’Accademia di Belle Arti, ma sono un autodidatta che ha carpito un sacco di informazioni dalle proprie esperienze. Prima ancora, è stata determinante la prima videocamera di quando avevo dieci anni, una Sony Handycam. Quella che utilizzo adesso, che è anche quella con cui ho girato Atlantide, ha le stesse dimensioni di quella di quando ero bambino. A dieci anni mettevo cassette Video 8, adesso giro a 8K.

Sei professore alla Naba di Milano, dunque i tuoi studenti appartengono più o meno alla generazione di Atlantide. Come vivi questa relazione?
Con tutta la mia ricerca sulle tematiche giovanili mi sento molto in empatia con loro. Abbiamo fatto recentemente il corso online ed è stata un’esperienza bella e formativa. Tutto quello che è nuovo non mi spaventa, anzi, mi eccita. Sono molto soddisfatto di loro, abbiamo anche prodotto un film di 1h e mezza, intitolato Covid Movies, ognuno da casa nella propria stanza.

Quale consiglio daresti a un giovane artista emergente?
In questo forse sono vecchio: tutto e subito non esiste, bisogna fare la gavetta.

Tre artisti, registi, musicisti o film che ti hanno cambiato?
Certamente Tsukamoto, come dicevo. Antonioni e, ovviamente, la musica di quando avevo vent’anni: l’ambient techno, la colonna sonora della mia vita che continuo sempre ad ascoltare.

Che cosa significa per te fare arte?
Non è un lavoro, non è un business, e non è sempre piacevole. È una vocazione.

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