18 ottobre 2019

Antonio Canova. Eterna bellezza

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A Roma una mostra-evento sul legame tra Antonio Canova e la Città Eterna. Ce la racconta Giuseppe Pavanello, curatore della mostra

Antonio Canova. Eterna bellezza
Antonio Canova. Eterna bellezza

Quello tra Roma e Canova è un rapporto complesso, fatto di un continuo dare e avere. Dalla capitale papale lo scultore riceve fama, gratitudine ma soprattutto cultura, quella dei marmi antichi, inesauribile fonte d’ispirazione. Ricambia questi doni con impegno e attenzione: si dedica, anche con finanze proprie, alla conservazione del patrimonio antico, ne custodisce i fasti e soprattutto vi riconosce l’autentica grandezza, la stessa che lo porterà a non dubitare nemmeno per un attimo della paternità fidiaca dei fregi del Partenone da poco giunti a Londra. Una grande mostra, promossa dal Comune di Roma e Arthemisia, “Canova. Eterna bellezza” (catalogo Silvana Editoriale), al Museo di Roma in Piazza Navona, celebra, fino al 15 marzo 2020, l’articolato rapporto tra lo scultore e la città. A curarla è Giuseppe Pavanello, docente di storia dell’arte moderna all’Università di Trieste e accreditato studioso dell’opera canoviana. Oltre 170 opere di Canova e artisti a lui coevi animano le sale di Palazzo Braschi, in un riuscito gioco di luci e ombre, raccontando in tredici sezioni l’arte canoviana e il suo ambiente. Una mostra che non mira al sensazionale, ma punta a ripercorrere con attenzione filologica i rapporti e il contesto nei quali Canova si è trovato ad operare. Abbiamo incontrato il curatore per farcela raccontare.

Nella fortuna critica di Canova lapidaria appare la considerazione di Roberto Longhi: “lo scultore nato morto, il cui cuore è ai Frari, la cui mano è all’Accademia e il resto non so dove”. Lei che opinione si è fatto in proposito?

«Longhi scrive questa frase alla fine del Viatico per cinque secoli di pittura veneziana. Uno scritto in cui recensisce negativamente anche altri artisti come Giorgione e Tiepolo, tanto che Giuseppe Fiocco, allora docente a Padova, disse che quella di Longhi era “l’estrema unzione della pittura veneziana”. Non bisogna dimenticare che Longhi lancia Caravaggio nella mostra di Milano del 1951. Tiepolo e Canova appaiono immediatamente come i suoi opposti. Inoltre sono gli anni del neorealismo e si usciva dalla retorica classicheggiante del fascismo. Con tutta franchezza credo che un artista come Mimmo Jodice abbia compreso Canova meglio di molti storici dell’arte. Per questo ho voluto in mostra le foto da lui realizzate nel 1991 in occasione dell’esposizione alla Fondazione Memmo dei marmi dell’Ermitage e pubblicate l’ultima volta nel 2018 in un mio volume di pregio edito da Utet».

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Anonio Canova – Danzatrice mani sui fianchi, 1806-1812 Marmo, 179x76x67 cm The State Hermitage (San Pietroburgo)* Photograph © The State Hermitage Museum, 2019 Foto di Alexander Lavrentyev

Il tema principale della mostra è il rapporto tra Canova e Roma. Può raccontarci questo legame?

«Canova è giunto a Roma nel 1779 e, fatta eccezione per alcuni viaggi, è sempre stato in città, eccezion fatta per la morte, eccezionalmente giunta a Venezia nel 1822. Nel 1802 Pio VII, su consiglio del Segretario di Stato, il cardinale Consalvi, lo nomina artista di Stato e Ispettore delle Belle Arti, titolo che prima di lui era stato di Raffaello. Uno dei suoi primi atti è quello di porre il divieto di esportazione delle opere. In quel periodo le famiglie dell’aristocrazia romana erano in profonda crisi economica. I Giustiniani ad esempio dovevano vendere dei ceppi romani che, non potendosi esportare, nessuno acquistava. Li compra lui e li dona ai Musei Vaticani. In mostra è presente uno di questi ceppi come simbolo dell’attività mecenatizia di Canova nei confronti di Roma. Nell 1809, mentre il pontefice è in esilio, Napoleone decide di fare di Roma la seconda capitale dell’Impero. In quel momento il governo francese pretendeva il giuramento dei dipendenti. Canova, che era direttore dei Musei Vaticani, giura solo dopo forti pressioni, firmandosi “Antonio Canova veneto”, assumendo così una presa di distanza dalla francesità. Inoltre non ha mai abitato l’appartamento in Vaticano che i francesi avevano destinato al Direttore né ha mai ritirato lo stipendio. Con questi gesti Canova mostra la sua fedeltà alle antichità di Roma, per le quali assume l’incarico offertogli dai francesi, ma non si ritiene mai al loro servizio. Più tardi, ad impero napoleonico caduto, di ritorno da Parigi, dove ha ottenuto la restituzione di molte opere allo Stato della Chiesa, riceve dal papa il titolo di marchese, ma sceglie di destinare tutte le rendite associate al titolo al finanziamento di borse di studio per giovani artisti, a restauri e scavi».

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Antonio Canova – Genio della Morte, 1789 Marmo, 86x38x38 cm The State Hermitage (San Pietroburgo)* Photograph © The State Hermitage Museum, 2019 Foto di Alexander Koksharov« Prev

Le sculture di Canova rispondono ai dettami introdotti da Winckelmann della “nobile semplicità e quieta grandezza”. Ma dai suoi studi ha avuto modo di desumere qualche aspetto del temperamento dello scultore?

«Quando Canova arriva a Roma tiene un diario. In esso, tra le altre cose, si dichiara affascinato dall’Apollo e Dafne di Bernini. In questa dichiarazione di bellezza manifesta la sua grande libertà, il suo non essere schiavo di una dottrina. Le lacrime della sua Maddalena penitente [opera in mostra, ndr] derivano da quelle della Dafne. La Maddalena è una delle tante opere realizzate da Canova di propria iniziativa e non su commissione. Quando viene portata a Parigi Quatremère de Quincy ne celebra “l’esecuzione magica” e la definisce “opera tutta figlia del cuore”. Ora, se ci attenessimo ai precetti neoclassici il cuore dovrebbe c’entrare molto poco. Eppure sia Winckelmann che Diderot, a proposito dello studio del nudo, invitavano gli artisti ad esprimere le passioni. Per questo gli studi di nudi di Canova (in mostra ce ne sono diversi) sono tutti appassionati».

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Antonio Canova – Amorino alato, 1794-1797 Marmo, 142×54,5×48 cm The State Hermitage (San Pietroburgo)* Photograph © The State Hermitage Museum, 2019 Foto di Alexander Koksharov« Prev

In cosa ritiene che la mostra consenta agli studi di fare un salto in avanti?

«L’idea è quella di mostrare un rapporto dialettico tra Roma e Canova. Ho molto insistito sull’aspetto di Canova conservatore delle Belle Arti perché è modernissimo. Voglio che il pubblico impari a guardare a Canova come all’ultimo degli antichi e al primo dei moderni. In mostra in particolare ho voluto riproporre due aspetti tipici di Canova: la rotazione delle statue su base rotanti, perché riteneva che facendole ruotare le sculture si animassero, e l’uso del lume di fiaccola attraverso il quale riteneva si potessero apprezzare meglio alcune finezze».

Quale opera ritiene sia stato un successo aver ottenuto e quale invece avrebbe voluto ottenere?

«Una delle opere su cui puntavo erano Le tre Grazie dell’Ermitage. Purtroppo erano già destinate ad un altro evento. Volevo Le Grazie non per presentare l’ennesimo capolavoro ma per effettuare l’esperimento proposto da altri della scultura nel labirinto di specchi. L’opera più importante ricevuta è invece la Danzatrice con le mani sui fianchi, pure dell’Ermitage, che ruota su apposita pedana e chiude la mostra».

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