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Collezionare l’Ottocento italiano: intervista all’esperto Andrea Baboni
Arte moderna
Per la prima volta a Palazzo dei Principi di Correggio è andata in mostra una selezione delle opere appartenenti ad Andrea Baboni, nato come pittore e divenuto successivamente storico dell’arte ed esperto dell’arte macchiaiola e post-macchiaiola per Christie’s di Londra. Lo abbiamo intervistato sulle sfaccettature di una pittura rivoluzionaria e sovversiva, per quanto oggi sottostimata dal mercato, che ha cambiato profondamente i canoni accademici, spingendosi fino alle prime ricerche novecentesche.

Quando è nato il tuo interesse per l’arte?
«Mi sono avvicinato all’arte quando ero molto piccolo, ad appena dieci anni. A quell’età andavo difatti a casa dell’artista correggese Carmela Adani, pittrice scultrice, a imparare a disegnare con gli smalti da finestre su mattonelle. Poi, mi cimentai con la pittura a olio e, soprattutto, con i pastelli a cera. Allora ero considerato un “pittore emergente”, e feci mostre con buon successo di pubblico e critica, a Firenze e Milano. Ero uno dei giovani italiani più promettenti per la critica del tempo. Ho smesso di dipingere per andare a lavorare come esperto alla casa d’aste Christie’s, mantenendo sempre la mia sensibilità di pittore».
Quando hai iniziato a collezionare l’Ottocento italiano? Con quale opera?
«Girando per le città d’arte, ancora studente di architettura, mi infilavo in tutti i negozietti d’antiquariato dove si potevano vedere opere di tutti i tipi. Ho iniziato quindi a collezionare molto giovane, stavo concludendo a Firenze l’università, quando ho acquistato il primo pezzo della mia collezione, un’opera di Edoardo Dalbono, che avevo visto in esposizione alla galleria Parronchi».
Qual è stato, fino a oggi, l’incontro più significativo che hai fatto nel mondo dell’arte?
«Ho avuto la fortuna di conoscere i maggiori collezionisti italiani e, nel contempo, critici dall’occhio fino, come Mario Borgiotti, Federico Zeri, Silvestra Bietoletti, Alessandro Parronchi, e tanti altri.
Ma l’incontro più importante fu quello con la vedova di Giovanni Malesci – erede universale di Giovanni Fattori –, presso la la cui abitazione milanese, in piazza Cinque Giornate, trascorrevo intere giornate a rovistare nei cassetti, alla ricerca di documenti e foto su Fattori, pittore che amavo sopra tutti. Ebbi modo così modo di consultare carte e archivi e di acquistare i diritti di tutte le fotografie originali che Giovanni Malesci utilizzò per redigere il catalogo delle opere di Fattori nel 1961, ora esaurito e di cui ho l’incarico di curare l’aggiornamento».

Quali sono gli artisti e le opere dell’Ottocento che più hanno influenzato il tuo percorso nella vita e nell’arte?
«I macchiaioli fiorentini e i post-macchiaioli sono quelli che mi hanno più influenzato, in particolare Giovanni Fattori, uno dei più importanti. Andavo a vederne le opere alla galleria Parronchi di Firenze quando ero ragazzo, e lì mi sono fatto l’occhio, in seguito fui chiamato da Christie’s per collaborare. In qualità di esperto, dovevo trovare opere importanti da mettere in asta. Ricordo che scoprii a Venezia una tavoletta attribuita a Fattori che, in realtà, ritenni autentica, ed era realmente così. Ancora oggi, sia privati sia istituzioni si rivolgono a me per avere conferma o mano dell’autenticità di lavori di Fattori, del quale ho curato numerose mostre monografiche su richiesta del Museo Fattori di Livorno.
Mi entusiasma sempre il dipinto Butteri del Museo Fattori, che descrive con ampie dimensioni il lavoro dei mandriani mentre conducono le mandrie. Lo guardo e sento il terreno vibrare sotto gli zoccoli degli animali. Ogni volta mi commuovo».
Ci puoi descrivere un aneddoto collegato alla tua passione per il collezionismo?
«Il più divertente risale al mio viaggio di nozze. Io e mia moglie avevamo con noi una discreta somma da spendere per la luna di miele. Trascorremmo così alcune notti presso un hotel pluristellato di Firenze affacciato sull’Arno. Un giorno, a Perugia, mi capitò di imbattermi in un piccolo negozio d’antiquariato dove rinvenni cinque disegni di Telemaco Signorini. Spesi tutto quello che avevo con me, così non resto e mia moglie e me che concludere il viaggio di nozze in una modesta pensioncina a due stelle».
Perchè è importante l’arte? Cosa ti ha dato e continua a darti?
«L’arte è importante perché ti fa assaporare “il bello”, ti emoziona e ti introduce in mondi sconosciuti. In quest’epoca di brutture, l’arte è in grado di salvare il mondo.
Nascendo come pittore, la mia vita ha sempre coinciso con l’arte. Ancora oggi, mi emoziono davanti a un quadro, e continuo a collezionare, non solo Ottocento, ma anche arte moderna. La mia è una passione che rimane viva e intatta nel tempo».

Quali sono le caratteristiche che deve avere un’opera d’arte per entrare nella tua collezione?
«Anzitutto mi deve colpire, mi deve “parlare”. Poi, deve essere autentica, appartenere al periodo che maggiormente ho approfondito, il XIX e XX secolo, e deve essere opera di pittori di un certo livello. Mi interessa la pittura di tutte le scuole regionali italiane, di cui posseggo ormai diverse opere.
Quello che ricerco per la mia collezione è soprattutto la qualità, oltre all’autenticità. Ultimamente, ho acquistato alcune opere di Plinio Nomellini, pittore allievo di Giovanni Fattori, già aperto al divisionismo di inizio Novecento, che ho selezionato anche per la mostra della mia collezione al Museo di Correggio».

Perché, a tuo avviso, l’Ottocento italiano non ha avuto la stessa fortuna di quello francese?
«Sostanzialmente perchè l’Italia non era Parigi, che era la città fulcro degli Impressionisti francesi. I macchiaioli non erano certamente da meno, ma l’Ottocento Italiano è stato frammentato nei rivoli di tante scuole regionali e non aveva le tematiche tipiche della Ville Lumière. I mercanti d’arte nostrani, poi, hanno lavorato per lo più da battitori liberi, senza fare squadra tra loro per la diffusione e conoscenza della qualità dei pittori italiani fuori dagli angusti confini provinciali e nazionali.
Questi pittori descrivevano dal vero la dura vita delle campagne, le fascinaie, i pesaggi aspri della Toscana, i soldati al ritorno dalla battaglia, i poveri contadini e le popolane. Soggetti non certo piacevoli come le dame e le ballerine tipiche della vita frenetica della capitale francese. De Nittis, pittore presente nella mia collezione, fece fortuna difatti a Parigi, divenendo impressionista lui stesso. Dal canto loro, gli italiani che si trovavano a discutere dal 1855 nel retrobottega del Caffè Michelangiolo a Firenze, chiamati in modo dispregiativo “macchiajuoli” per la “pittura a macchia”, erano dei rivoluzionari, scardinavano le regole della tradizione, volevano uscire dalle aule accademiche per dipingere il vero prendendo spunto dai barbisonniers francesi, ma con una capacità di sintesi e una plasticità molto diverse, e non certamente inferiore».

Quali sono i nuclei principali della tua collezione?
«Sono quelli che ho selezionato per la mostra di Correggio, una prima tappa di un progetto più ampio per dare visibilità alla mia collezione. Quindi, la scuola toscana, con i macchiaoli storici, come Giovanni Fattori, Vincenzo Cabianca e Telemaco Signorini, oltre ai loro allievi, da Nomellini, a Oscar Ghiglia e Mario Puccini assieme ad altri post-macchiaoli. La scuola veneta con Guglielmo Ciardi e Pietro Fragiacomo, con la sua tipica pittura intrisa di luce lagunare; la scuola meridionale con De Nittis che espose a Parigi insieme agli Impressionisti nel 1874; Antonio Mancini, Dalbono e Vincenzo Caprile della Scuola di Resina; i piemontesi Matteo Olivero e Vittorio Avondo della scuola di Rivara; e gli emiliani con il piacentino Stefano Bruzzi, il parmense orientalista Alberto Pasini e il reggiano Gaetano Chierici».
Qual è stato il più grande contributo della pittura e scultura dell’Ottocento italiano all’arte dei due secoli seguenti?
«Il rinnovamento, decisamente. I macchiaioli erano giovani che avevano voglia di cambiare le cose, spesso combattevano in prima linea, esattamente come nel Novecento accadde per le avanguardie. Erano avanguardisti, precursori, con la loro pittura dal vero».

Quali sono i lavori in collezione ai quali sei più affezionato?
«Ovviamente i dipinti e le incisioni di Giovanni Fattori. Di tutte le incisioni ho realizzato anche un catalogo ragionato in due volumi. Ma anche le opere del veneto Pietro Fragiacomo, di cui ho realizzato una monografia, mi sono molto care».
C’è un’opera che avresti voluto avere e che ti è sfuggita?
«Tutto quello che ho voluto veramente, l’ho quasi sempre ottenuto. Mi sono sfuggite alcune opere di Giovanni Fattori e “Il Ponte vecchio” di Telemaco Signorini che vidi presso il collezionista Borgiotti a Milano. Ad oggi, vorrei avere un’opera di Fontana per arricchire la sezione del moderno, dove sono già presenti lavori di Agostino Bonalumi, Giuseppe Capogrossi e Afro».

Dove compri più frequentemente le opere della collezione, in galleria, fiera o asta?
«Avendo lavorato in Christie’s a Roma per molti anni, il mio canale preferenziale rimangono le case d’asta. In genere, compro dove trovo, anche nelle gallerie private o nelle fiere antiquarie».
Come è cambiato il sistema dell’arte da quando hai iniziato a interessarti d’arte?
«Purtroppo, il sistema è molto cambiato, e non in meglio. Adesso l’Ottocento vale meno rispetto a quando ho iniziato in Christie’s, quando si facevano numeri importanti. Diciamo che l’arte del XIX secolo non è più sulla cresta dell’onda, necessita di essere riscoperta e rilanciata come merita».

Quali consigli daresti a chi volesse iniziare una collezione di arte italiana dell’Ottocento?
«Consiglierei sicuramente di prendere pezzi di autori importanti come ho fatto io, i maggiori di ogni scuola regionale. Quindi, sicuramente Fattori e i macchiaioli storici, i veneti in particolare Luigi Nono, e tra i meridonali, soprattutto De Nittis».
Un sogno ancora nel cassetto?
«Pubblicare il catalogo ragionato generale dell’opera di Fattori che finalmente sto terminando, a cui lavoro da anni. E l’idea di dar vita a una fondazione per mantenere il nucleo originario della mia collezione, perché non vada dispersa ma aperta al pubblico e agli studiosi per contribuire a diffondere la pittura dell’Ottocento italiano».

Chi è Andrea Baboni
Andrea Baboni compie studi classici per poi laurearsi in Architettura a Firenze nel 1970. Da sempre nutre interesse allo studio della pittura, praticata anche con esposizioni personali dai primi anni Sessanta, a Reggio Emilia, Firenze e Milano. Dalla seconda metà degli anni Sessanta si orienta allo studio della pittura italiana dell’Ottocento, anche attraverso contatti sistematici con studiosi e collezionisti, particolarmente di ambito toscano, emiliano e veneto. Svolge a tempo pieno l’attività di conoscitore e storico dell’arte italiana per il periodo compreso tra le prime esperienze sul vero (i macchiaioli, in particolare) e l’inizio delle avanguardie storiche del XX secolo. L’esperienza di responsabile per l’Italia del Dipartimento Arte del XIX secolo presso la Casa d’aste Christie’s, sin dallo scorcio degli anni Ottanta, con consulenza per le sedi di New York e Londra, gli ha consentito di approfondire la sua conoscenza su tutte le scuole regionali italiane.