26 marzo 2022

Dalla parte del drago #28: Ars Longhi. Omaggio al Professore

di

Riconsegnare la critica al cuore di un’attività letteraria che non potrà mai essere “letteratura di intrattenimento”: un omaggio a Roberto Longhi

Guercino, Festa Campestre, 1617, Olio su tela, 34x46 cm

Chi ama la scrittura alta e la storia dell’arte potrà certamente notare che in una persona speciale le due doti riuscirono a coincidere. Un critico d’arte, maestro tra gli altri di Pier Paolo Pasolini e Bernardo Bertolucci, che influenzò Federico Zeri e tanti altri. Nulla di estetizzante – scrisse nella sua Proposta per una Critica d’Arte in Paragone, primo volume – sia ben fermo. Ma c’era pur sempre l’esigenza di riconsegnare la critica, e perciò la storia dell’arte, non diceva nel grembo della poesia ma, certamente, nel cuore di un’attività letteraria che (lui ne era sicuro) non potrà mai essere “letteratura di intrattenimento”. E così raccontò la storia dell’arte con venti così alti da essere letteratura, a volte poesia. Come quando definì il Guercino, nella chiusa dell’Officina Ferrarese, temporalesco, maculato, bruscato, dossesco, in riferimento alla Festa Campestre di Palazzo Pitti o del Bagno di Diana di Bergamo. E che si spinse a descrivere quel buio della Notte con le seguenti parole: là dove l’aria si abbuia appena. Poesia vera. Che si ritrova in una delle lettera inviate al Berenson nel gennaio del ’13 quando descrisse una riproduzione di un possibile quadretto del Greco dove s’intende la spossatezza giallastra dell’atmosfera, dove la nevosità della fiamma rappresa e il lieve trasudare sebaceo del viso morto si fondono, espressivamente. Difenderà poi il futurismo, sostenendolo superiore al cubismo, dove ogni curva si comprime all’estremo e non si spezza, ogni cerchio si riduce all’ultimo ellisse di cui è dato il punto della resistenza massima: l’afelio. Ma ciò vale per ogni cosa, continuava il Longhi, riferendosi ai quadri futuristi, in particolare a quelli del Boccioni: la polvere gialla serpenta ondulando come polvere pirica che sta per vampare; i campi e le case roteanti lontano saettano i loro solchi, il loro vertiginoso accoltellarsi, verso la figura del primo piano in una prospettiva mirabilmente inversa, poiché la convergenza è sul dinanzi che transita fulmineo; il cielo vela i suoi avvallamenti di fumo radente che salendo s’appiana; il colore prezioso stilla denso carminioso e scuro verso il contorno lineare e digrada saturando in breve ogni lama isolata di forma. Ma non è per chiunque questa corrente d’avanguardia, che non tutti capiscono e dunque la criticano con parole che paiono fiori di Boezia cadenti dalle labbra degli abitanti del’Urbe (…), nei cinque minuti di ispezione sospettosa…Eh! la paura d’essere fatti fessi è a suo dire un segnale infallibile d’imbecillità. E questo è solo un estratto di Boccioni e il Futurismo.

Il Morazzone, Decollazione del Battista, 1620, Olio su tela, 82,8×112,4 cm

Nell’introduzione del catalogo della mostra sul Morazzone, curata da Mina Gregori, che titola curiosa Piaceri e vantaggi di una mostra – e siamo ad inizio anni ’60 – approfitta per criticare la situazione del bilancio generale di uno Stato come l’Italia, che dedica troppo poco alla tutela del suo patrimonio e ai mezzi a disposizione che sono quasi nulli. Ma poi racconta talora di figure che si aggregano, o si fan cenno di lontano sul registro deserto dei muri. Si vegga la splendida soluzione del formato orizzontale nella Famiglia del Falegname per la cappella del Rosario a Varese o, per il quadro in altezza, lo scroscio a cascata di sete acquose nell’Adorazione dei Magi in Sant’Antonio Abate. Oppure il San Rocco dell’altare di Borgomanero, lungo come un lanzo travestito e da non riconoscersi quasi, lì accanto, nelle storiette, tanto più accostanti, delle sue sante avventure. Di Piero, suo preferito, nota compiaciuto il colorito roseo come un fiore di pesco del Cristo battezzato nel Giordano scongelato che pare scendere dal nord come nascesse dal San Gottardo. Nota altresì nella Flagellazione la fulgidità minerale dei colori e chi ricorda il quadro ricorderà anche quanta bellezza e quanto riposo ci sia difatti nel paradiso dei colori. E nella stessa opera sottolinea di Pilato, nel suo trono, le vesti azzurre e purpuree che paion carpite al tesoro degli smalti limosini del Trecento e la luce che lo investe soffiata come una capsula alabastrina. E l’intera scena è insomma come un evento omerico nell’atrio di una reggia Egea.

Masaccio, Madonna dell’Umiltà, 1424-5, Tempera su tavola, 105,6×54,1 cm

Nei Fatti di Masolino e Masaccio, eccellenti già nel titolo, trascrivo il gran ritmo aggirato, quasi a valva di conchiglia della Madonna dell’Umiltà. E, a meglio osservare, è bene notare con che violenza s’infoschi e si schiari di fitto tramato chiaroscurale il blu che modella, pur senza scadere d’intensità cromatica locale, il ginocchio sottomesso della Vergine; eppoi con che delicata potenza si rimpolpi il motivo linearmente sfinato della mano, che va acconciando la mammella alle labbra del Bambino. Evviva.
E per non trascrivere tutto della Breve ma veridica storia della pittura italiana, mi limiterò a qualche spunto essenziale. Che “l’essenziale” per lui era quando uno solo dei suoi alunni, dopo quarantore di storia dell’arte, credeva di potersi ricordare qualche volta che oltre la bistecca e la sigaretta, c’è il quadro e la statua.

Galasso Galassi, Autunno o Polimnia, 1455 circa, Dipinto su tavola, 116×71 cm

O quando del Bacco e Arianna di Londra del Tiziano notava l’intonazione atmosferica farsi più estiva, madida, carica di giallore afato. Quando ammetteva alla prima che noi siamo convinti, senza che lui debba spendere parole, che l’arte non è imitazione della realtà ma interpretazione individuale di essa, e quando dell’Autunno del Galasso, primo scolaro ferrarese di Piero, sottolinea quella solenne e dolce figura immersa nell’atmosfera azzurra, in veste di rosa pallido finemente granito dalla luce morbida che imperla il grappolo d’uva stipato di chicchi.

Galasso Galassi, Autunno o Polimnia, 1455 circa, Dipinto su tavola, 116×71 cm

O quando definiva Gianbattista Tiepolo un Veronese dopo un’acquazzone e quando notava che Degas, utilizzando in modo che ha del miracoloso i trucioli, gli scarti, gli imprevisti del disegno-colore impressionistico, li compone e stende in opere immortali sforbiciate con le sorprese di un prospettico feroce. Ma dobbiamo congedarci. Un congedo? Aveva pensato anche a quello, un tempo; ma ora, proprio non si sente. Noi di certo -a posteriori- ne prevediamo la ragione. Era troppo caldo, nel Luglio di quell’anno (il 1914).

Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle.
IG: dallapartedel_drago

 

1.
Guercino, Festa Campestre, 1617, Olio su tela, 34×46 cm

2.
Il Morazzone, Decollazione del Battista, 1620, Olio su tela, 82,8×112,4 cm

3.
Masaccio, Madonna dell’Umiltà, 1424-5, Tempera su tavola, 105,6×54,1 cm

4.
Tiziano, Bacco e Arianna, 1520-23, Olio su tela, 176,5×191 cm

5.
Galasso Galassi, Autunno o Polimnia, 1455 circa, Dipinto su tavola, 116×71 cm

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