27 luglio 2010

arteatro_festival Santarcangelo dei Teatri

 
Giunto alla sua 40esima edizione, il festival si veste di rosso. Diretto da Enrico Casagrande dei Motus, il teatro in piazza indaga il concetto di realtà contemporanea...

di

Analizzare
il concetto di realtà nelle sue differenti manifestazioni, raccoglierne i
molteplici significati e lasciarli esplodere attraverso l’arte e la
rappresentazione scenica, disegnare vie di fuga da un presente malato e
depresso in cui lo stesso termine ‘realtà’ sembra aver perso significato. È
questa l’impronta che Enrico Casagrande, fondatore della compagnia Motus, dà alla 40esima edizione del Festival di Santarcangelo, seconda tappa
del progetto triennale Santarcangelo 2009/2011. Un progetto – aperto nel 2009 con la direzione di
Chiara Guidi della Socìetas
Raffaello Sanzio
– che affida la
guida del festival a tre differenti compagnie romagnole e che si concluderà nel
2011 con la direzione artistica di Ermanna Montanari del Teatro delle Albe.

Come
restituire la “realtà” alla contemporaneità? Se, come scrive il filosofo Jean
Baudrillard nel suo Il delitto perfetto, la realtà è stata uccisa dalla società mediatica e consumistica
permeata dal potere attrattivo di immagini simulate, allora gli artisti
chiamati da Casagrande per costruire la programmazione del festival non fanno
altro che scoprirne il sanguinante cadavere. E non è un caso se il colore
scelto per festeggiare i quarant’anni di uno dei più importanti festival
teatrali italiani sia il rosso. Banalmente il colore dell’amore, della
passione, del desiderio carnale, dell’irruenza, della violenza e del sangue. Un
colore che assume una valenza nostalgica, che ricorda un passato politico ormai
inesistente, ma anche la pulsazione, il battito cardiaco, l’esplosione, la
giovanile utopia di sovvertire il mondo. Tematiche e termini presenti in tutte
le opere di Motus, da Twin
Rooms
a X(ics) – Racconti
crudeli della giovinezza
, per arrivare
al più recente e politicizzato progetto Syrma Antigones. Invasa dallo spettacolo, dai media, dalla virtualità, la città
concreta dilata i propri confini in una dimensione altra in cui ogni cittadino,
ogni passante, ogni visitatore è improvvisamente inglobato.

Il
collettivo fiammingo-olandese Wunderbaum costruisce il proprio spettacolo Magna Plaza all’interno del centro commerciale Atlante nella
vicina Repubblica di San Marino. Munito di cuffie, lo spettatore ascolta le
voci e segue i movimenti dei performer che, dispersi nell’edificio, mettono in
scena una storia d’amore dai tratti adolescenziali ispirata al film Dolls di Takeshi Kitano e permeata dall’immaginario manga giapponese. Non
più luogo di passaggio, il centro commerciale detta, nella società capitalistica,
le norme di impiego del loisir,
diviene luogo d’incontro, modula nuove tipologie di relazione sul cui sfondo si
nasconde l’anima spietata del commercio.

Un
uomo aspetta inutilmente la donna amata reggendo un cartellone con la scritta “Ready
for love?
, un altro uomo incontra, tra i negozi e i
supermercati, la sua devota amante, pronta a suicidarsi pur di non essere
abbandonata. Nel frattempo una popstar vede crollare la sua carriera a causa di
un incidente che le ha sfigurato il volto. A sorreggerla è una sua fan,
innamorata follemente della sua immagine mediatica. Tutti questi personaggi
incrociano lo sguardo e la vita dei reali clienti del centro commerciale,
inglobati per un attimo nella drammaturgia come attori non protagonisti, atomi
dispersi in uno spazio a-temporale, molecole galleggianti tra slogan
pubblicitari e insegne luminose. Se il tempo libero è regolato dalle leggi
ferree della domanda e dell’offerta, l’amore non è che un oggetto di scambio,
un prodotto da acquistare e vendere continuamente annullandosi tra frasi
sdolcinate e mega-peluche.

Nella
virtualità non c’è più soggetto né oggetto perché entrambi diventano elementi
interattivi. Questa interattività permea anche il rapporto che intercorre tra
performer e spettatore nello spettacolo Domini Pùblic di Roger Bernat. Chiamato nuovamente a indossare delle cuffie, un
nutrito gruppo di spettatori si ritrova al centro di piazza Ganganelli, cuore
di Santarcangelo, pronto a rispondere, attraverso i suoi movimenti, alle
domande di una voce registrata. Le risposte porteranno lentamente alla
formazione di piccoli gruppi che si sposteranno nello spazio della piazza come
pedine di un gioco da tavola. Diviso tra poliziotti, prigionieri e membri della
croce rossa, il pubblico darà vita a una drammaturgia costituita da scambi
relazionali anonimi ma non asettici, dalla formazione di una comunità labile
eppure unita da una sorta di Big Brother che scava nell’intimità di ognuno per separare e unire, ribaltando
continuamente i ruoli di vittima e carnefice.

Hai
mai visto una foto di tua madre mentre era incinta di te? Era più felice di
adesso?
, chiede la voce registrata. Così Bernat lascia
scivolare lentamente il divertentissement del suo gioco pubblico in una riflessione sui ruoli che ogni individuo
assume nella società tra individualità e induzione sociale. In questo gioco
tragico lo sguardo dello spettatore è moltiplicato in maniera esponenziale:
come performer guarda agire se stesso, come spettatore assiste al movimento
degli altri membri del pubblico, come individuo immerso in una micro-comunità
osserva il mondo esterno improvvisamente sconosciuto (ossia lo spazio che
circonda la piazza), infine, come attore fra attori è costantemente osservato
dai passanti che, incuriositi, si fermano a guardare.

Questa
tragica giocosità si incarna perfettamente nel radiodramma Finale del mondo messo in scena da Teatro Sotterraneo nello stadio di Santarcangelo e trasmesso in
diretta su Radio3 Rai. Con toni giornalistici, due performer/cronisti fingono
di collegarsi con lo stadio di Johannesburg (dove contemporaneamente si svolge
la reale finale dei Mondiali di Calcio) e di seguire i movimenti di un terrorista
che attende il 90esimo minuto della partita per far esplodere una bomba. Nello
stadio, gli spettatori guardano due altri performer che si contendono
continuamente il loro pallone fino a quando un uomo vestito di nero entra in
scena e interrompe bruscamente la partita.

Tempo
reale e tempo del racconto si ibridano e confondono improvvisamente.
Nell’immaginato stadio di Johannesburg e nel concreto stadio di Santarcangelo,
il terrorista apre una borsa, sfila un microfono e canta The Show Must Go On
dei Queen. Come già dimostrato da
Orson Welles nel 1938 con lo sceneggiato radiofonico La guerra dei mondi (divenuto celebre per aver scatenato il panico
descrivendo un’invasione aliena) attraverso i media il principio di realtà è
definitivamente perso, ucciso, occultato; diventa impossibile distinguere tra
ciò che è vero e ciò che è falso.

Questo
è probabilmente il senso più profondo della tragedia contemporanea, l’immagine
del cadavere della realtà che Baudrillard e la postmodernità ci hanno
consegnato. Enrico Casagrande costruisce il suo festival come il ritratto o la
foto di questo cadavere senza storia e senza luogo, la sua direzione artistica
plasma la città come fosse un’opera d’arte in cui cercare il reale, la sua
radice linguistica. Ossia la res,
la cosa concreta, l’oggetto, l’azione pragmatica. Il festival di Santarcangelo,
nato nel 1971 e intessuto dei movimenti politici del ’68, oggi, invita il
pubblico a questa ricerca. Per i suoi quarant’anni di storia si tuffa nel rosso
del cuore e trasforma l’utopia in azione.

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matteo antonaci

la
rubrica arteatro è diretta da piersandra
di matteo


dal
9 al 18 luglio 2010

Santarcangelo
dei Teatri 2010

direzione
artistica di Enrico Casagrande

Sedi
varie – 47822 Santarcangelo di Romagna (RN)

Info:
tel. +39 0541622523; info@santarcangelofestival.com; www.santarcangelofestival.com

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