15 giugno 2017

TEATRO

 
Arricchiamoci delle nostre reciproche differenze. In “Compagnia Compagnia” di Jérôme Bel, al Centro Pecci di Prato
Di Giulia Alonzo

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Già Paul Valéry aveva colto l’arricchimento che deriva dallo scambio di culture. Oggi si parla molto di multiculturalismo, ma riempirsi la bocca di belle parole è facile, passare ai fatti un po’ più ostico. Le polemiche e gli scontri che avvengono in tutta Italia (e non solo) quando si cerca di avanzare anche solo di pochi passi verso l’uguaglianza di diritti e riconoscimenti sociali, è indicativa dell’incapacità di accettare i cambiamenti in atto, inevitabili e forse anche opportuni per il riequilibrio di una società in radicale trasformazione. 
In un panorama così complesso, l’espressione artistica è una delle dinamiche più attente a queste mutazioni. E forse è l’unica pratica capace di avvicinarsi alla conquista di una multicomunità. 
La scena finale di Compagnia Compagnia, la performance di Jérôme Bel al Centro Pecci di Prato ne è un esempio: disposti in una lunga linea quasi ordinata, uno affianco all’altro, i ballerini (o performer come va di moda dire oggi) incarnano la conquista e la creazione di una comunità formata da elementi differenti, ognuno dei quali vanta e sottolinea la propria individualità.
La giovane Antonia Alampi (esperienze a Parigi, Amsterdam, Il Cairo…) ha curato una sintetica retrospettiva sul regista francese, all’interno del Centro Pecci a Prato, una delle città più “orientali” d’Italia, anche se forse essere asiatico non è più una diversità in una località dove il cognome più diffuso è il mandarino Chen.
I nodi sono stati diversi, primo riuscire a trasmettere nelle bianche sale di un museo l’empatia che l’opera del regista crea solitamente a teatro. Vanno anche tenute presenti la dilatazione del tempo e la fruizione non controllata del pubblico di una mostra.
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La retrospettiva “76’38’’ + ∞” parte da questi nodi: il titolo suggerisce il tempo che lo spettatore impiega a vedere tutti i video dei cinque tra i lavori più significativi di Bel in più di trent’anni di carriera, anche se raramente il pubblico dei musei guarda tutti i video dall’inizio alla fine. Il pubblico teatrale invece di norma assiste all’intera durata dello spettacolo, cogliendo dunque l’organicità dell’opera. L’infinito si riferisce invece alla componente performativa, sia al tempo necessario alla creazione dell’evento sia al tempo della memoria del performer e dello spettatore.
Questo è lo spirito nell’opera site specific pensata dal regista per il museo, Danzare come se nessuno stesse guardando: una ballerina sola si muove in un moto perpetuo come alla ricerca continua di un nuovo approccio al movimento, nell’esplorazione di una nuova danza, dove il primo a essere messo in discussione è lo spettatore. Il movimento del corpo esiste anche senza di lui. 
La performance, ripetuta tutte le domeniche alle 17 e alle 21, è l’apice del lavoro curato dalla Alampi, affiancata in questo lavoro dal gruppo fiorentino Kinkaleri: inizialmente sola in scena una ballerina vestita di rosso e con lunghi capelli grigi e sciolti, compie, sulle note di una melodia, pochi minuti di coreografia. Esce poi di scena rientrando seguita da una decina di persone: bambini,  ragazzi di colore, un disabile, una ragazza down, una ragazza in tutù e una con una maglia viola, un ragazzo in leggings e lamè, due signori leggermente più in carne e un’ultima ragazza magrebina. Si ammassano sul fondo della sala, la prima ballerina, quella vestita di rosso, ricomincia i passi precedenti. Gli altri la seguono, ognuno con la propria velocità, ognuno col proprio stile. 
I ballerini, professionisti e non, collaborano alla  creazione dell’opera, coregisti di una drammaturgia gestuale: a turno, ma non tutti, i diversi personaggi prendono il posto della donna interpretando ognuno la propria canzone, eseguendo la propria coreografia. C’è chi si muove con la leggiadria, chi balla come se fosse davanti allo specchio, chi si agita senza freni, chi avanza poco sicuro e chi cerca di superare i propri limiti. 
La delicatezza della componente reale e umana è espressa in tutta la sua vivida crudezza, evidente e inevitabile. Senza parole, con il linguaggio non verbale della danza, in grado di avvicinare e costruire comunità, e al tempo stesso separare, creando l’individualità e sottolineando le singole “performatività del corpo”, con i  pregi e i difetti di ciascuno. Il gesto sostituisce la parola, facendo emergere la capacità di avvicinarci all’altro tramite la comprensione della sua limitatezza, nella quale si rispecchia la nostra. Fino al 25 giugno, al Pecci. 
Giulia Alonzo

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