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Alle origini del design. Il Vitra Museum dedica una mostra alla misteriosa comunità degli Shakers
Attualità
A ventiquattro anni sono andata a trovare Enzo Mari, mio eroe e unico designer con il quale avrei voluto lavorare, così dicevo. Era inverno e fuori si stava facendo buio. Lui era enorme davanti a me alla sua scrivania, disegnava e faceva una lista di tutto quello che avrei dovuto fare per diventare brava. Ma prima mi aveva servito delle brevi confessioni. Piccole opinioni taglienti di vario genere. Una di queste era di quanto fosse rimasto deluso dal popolo jugoslavo, perché erano così belli ma poi si sono ammazzati. Io annuivo. Gli sembrava interessante la mia tesi di laurea sulla punteggiatura. Poi è arrivato al racconto chiave. Era la storia di un paio di scienziati intenti a studiare le abitudini di una tribù di scimmie. Pare che, ogni giorno, verso il tardo pomeriggio, tutte le scimmie si dedicassero alla costruzione di baracche sugli alberi, dove rifugiarsi e proteggersi dai predatori notturni. Tutte tranne due. Poi puntualmente, poco prima che si facesse notte, la coppia tornava di corsa e si infilava nelle casette degli altri facendo arrabbiare il branco. Gli scienziati seguirono le due scimmie ogni giorno per capire dove stessero andando. Poco alla volta, con ogni inseguimento, si avvicinavano sempre di più alla grande scoperta. “Le trovano finalmente”, e qui Mari le disegna su una roccia singola che fuoriesce dal lato di una collina, “…abbracciate a guardare il tramonto. Ecco. Questa è arte.”
Per molti anni al Politecnico di Milano, ho avuto il piacere di affiancare il professore Matteo Pirola. Ogni anno mostra agli studenti di design un disegno fatto da Mari. È lo schizzo di un progetto degli “Shakers”. Si tratta di una culla di legno, identica alla culla per neonati, ma grande e grossa, pensata per cullare il corpo di un adulto malato. Ogni volta che la racconta in classe, mi dico tra me e me, “Ecco. Questo è design”.
Gli Shakers sono una comunità cristiana nata nel primo settecento. I membri della chiesa libera americana “Società Unita dei Credenti nella Seconda Apparizione del Cristo” vengono comunemente chiamati “Shakers” per il loro modo di ballare scuotendosi e agitandosi durante le cerimonie. La comunità nasce in Francia per poi spostarsi in Inghilterra e infine stabilirsi negli Stati Uniti dove contribuisce alla storia del design, influenzando probabilmente molti più movimenti e in modo molto più profondo di quello che si voglia pensare.

Gli Shakers considerano il lavoro fisico una forma di preghiera e producono con un approccio puritano e funzionale tutto; dai mobili agli edifici, dal vestiario all’oggettistica necessaria per svolgere una vita semplice. I loro prodotti sono espressione di principi religiosi riguardanti la comunità, il lavoro e l’uguaglianza sociale, prima pensati per loro stessi e poi anche per “Il Mondo” (come chiamano tutto quello che esiste fuori dai villaggi). Senza decoro e con un’etica rigorosa, sono probabilmente più responsabili di aver influenzato il minimalismo americano di quanto si creda.

Alla mostra “The Shakers: A World in the Making” al Vitra Museum, ho potuto vedere finalmente “Cradle for the dying”, la culla per morenti. Per me, il lavoro emblema degli Shakers e progetto capace di dimostrare come gli oggetti del quotidiano possono essere messaggeri fidati imbevuti di valori che trascendono il momento storico che li vede nascere. Erroneamente infatti, oggi si sente dire “stile Shakers” come se si trattasse di una tendenza stilistica. L’invenzione e l’intelligenza del design della culla sta nel semplice slittamento di scala, per un bisogno che col senno di poi ci sembra ovvio. E certo, un malato terminale va cullato, come un bambino.
Mari avrebbe detto, design è design se comunica conoscenza.
Al Vitra Museum avrei voluto vedere gli oggetti contestualizzati in qualche replica fedele agli interni degli Shakers, per poter finalmente entrare nel mondo autoprodotto della comunità e per godere del loro design assoluto, spesso rivelatore di ovvietà illuminanti. Ma provo a spostare l’attenzione su l’intento della mostra; affiancare gli oggetti storici degli Shakers a opere di artisti, artiste e designer contemporanei che indagano l’importanza odierna del gruppo. Forse non c’è stato ancora momento migliore per contemplare e ri-contemplare gli Shakers e il loro approccio minimale nella forma e massimale nel carico di attenzione e valori. In un momento storico dove nessun artista e nessuna istituzione sono esenti dal dibattito etico, mentre leggo con sospetto Against Morality di Rosanna McLaughlin, penso a un ipotetico corriere Amazon che ci consegna entro un’ora un pacco di spille da balia provenienti da luoghi mai visti e mai considerati, prodotti e trasportati in condizioni mai viste e mai considerate. E così penso anche alle numerose ipotetiche consegne impossibili e a corse alle quali si sottopongono grandi team di lavoro creativo al fine di promuovere un prodotto prima ancora di averlo realizzato. Mi chiedo, quale realtà ci risulta più esagerata e assurda?
Gli Shakers avevano l’ambizione di costruire il paradiso sulla terra e come diceva Mother Ann Lee, figura principale e profetica degli Shakers, considerata una incarnazione di Cristo in abiti femminili, “Non c’è polvere in paradiso”, riferendosi alla loro vasta produzione di scope. Eppure il paradiso che progettavano, standardizzavano, costruivano e pulivano non era di loro proprietà, poiché la proprietà privata era vietata sul modello di un ideale comunista cristiano spirituale. E la profetessa madre Ann Lee aveva più libertà, potere e diritti di quanto le donne fuori dalle mura dei villaggi si sognassero. E se la comunità degli Shakers iniziasse a sembrarci più ragionevole e equilibrata rispetto al nostro imponente distacco dai prodotti e processi di tutto quello che consumiamo e viviamo? D’altronde la culla per morenti effettivamente non serve, come non serve guardare il tramonto. E se non serve, non è un bisogno?















