25 aprile 2020

Coronavirus: siamo in guerra senza un progetto Manhattan?

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Lo shock della pandemia associato a quello del lockdown. Che cosa sta significando, nel profondo, questa libertà negata? Se la spiegazione fosse tutta da cercare nell'arte, quel ramo sottovalutato della scienza che fornisce modelli culturali universali?

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Non la Nato, ma l’Oms è l’ente internazionale che a marzo ha dichiarato la guerra mondiale alla pandemia. Una guerra che l’Occidente non era pronto a combattere e che forse ha già perso. Tradendo senza precedenti i loro principi fondatori di libertà, le nostre democrazie che un po’ sapevamo decadute, dall’Italia all’America, impongono le stesse misure applicate nella grande dittatura comunista, la Cina. Con il lockdown da cittadini liberi siamo improvvisamente diventati dei condannati in contumacia in libertà condizionata. Uno shock. Come è potuto accadere? Se la spiegazione fosse tutta da cercare nell’arte, quel ramo sottovalutato della scienza fornitore dei modelli culturali universali? Proprio quello che dovrebbe tenere in piedi le nostre economie sia in tempi di pace che in tempi, come adesso, di emergenza.

Resterà il mercato?

La quarantena ha travolto anche il mondo cristallizzato dell’arte. Musei e gallerie di tutto il mondo chiusi, mostre milionarie congelate, fiere rimandate, ed è bastato a mandare il sistema dell’arte in cortocircuito e a smascherare tutte le presunte proclamazioni di innovazione, spesso frutto di immani investimenti pubblici. Una cosa sola si presume si salverà: il mercato, come sempre. Qualche fiera d’arte – dopo lo scandalo della fiera europea Tefaf e la sua tardiva chiusura, un’incoscienza costatale caro in termini d’immagine – ha sperimentato le vendite online, anche se ora non se ne dichiarano i profitti.

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Picasso con Kahnweiler

Il mercato dell’arte, contrariamente a quanto molti pensano, non si fermerà ed è immune alla crisi sanitaria. Il resto delle attività dette culturali, con il tran-tran degli opening e altre strane usanze sociali, appare ora come uno sfondo narrativo rischioso (oltre che dispendioso) cui si può benissimo fare a meno. È lecito chiedersi se questo standard non fosse superato da tempo? Con il lockdown, il dubbio è diventato un’evidenza: in questo sistema, a veicolare cultura non sono più le istituzioni (ovvero quelle che dovrebbero fungere da case di distribuzione della cultura) ma il mercato, e questo molto prima che il coronavirus c’inducesse allo stato di guerra, almeno dai tempi del connubio Picasso e Daniel-Henry Kahnweiler, il mercante d’avanguardia. Significa che può aspirare a diventare cultura e a fare la storia soltanto l’arte che si vende o si compra, quella quotata. Tutto il resto, la cultura non veicolata dal mercato – ovvero quella che le istituzioni non sono obbligate a rendere redditizia poiché si fingono alternative alla cultura di mercato – risulta ineffettiva o non pervenuta.

Mentre sul mercato, quindi, l’arte è determinata, ed è quella cioè (discutibile o meno) di determinati artisti più o meno quotati, l’arte invece dei musei, teatri e altre istituzioni è e resta “anonima” e quindi nulla sul piano storico, e questo da più di mezzo secolo. Perché? Perché non c’è un solo museo pubblico o privato che faccia endorsement per questo o quell’artista, dichiarando di adottarne il pensiero e seguendo questa visione piuttosto che quella di un altro. Una sospensione politica deliberata (colpa di una geopolitica indefinita, dai tempi della Guerra Fredda) che già ci costava caro e che i responsabili chiedono adesso, con il pretesto del lockdown, di protrarre.

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Tefaf Maastricht 2020

Fondi per la Cultura, ma in quale direzione?

È l’idea del Fondo per la Cultura che si è fatta strada la scorsa settimana, abbracciata da qualche parlamentare della Commissione Cultura e ora diventata una petizione lanciata da Federculture, firmata tra gli altri da direttori e presidenti di istituzioni nazionali come il Maxxi, Triennale di Milano, Quadriennale di Roma e altre (quasi tutte capeggiate dal PD). Chiedono ai cittadini di investire a fondo perduto su una cultura senza nomi e senza una direzione.

Tipico di una politica di mezzo che potrebbe però avere vita breve: con la gestione sanitaria del coronavirus nel mondo, una nuova geopolitica si sta disegnando. Ma durerà finché converrà all’equilibrio mondiale un’Europa frammentata dalle molteplici (cioè variabili e quindi arbitrarie) identità, stretta tra grandi potenze tra Est ed Ovest dall’identità invece fissa e definita.

Ancor prima che nascesse questa idea del Fondo per la Cultura, all’ordine di chiusura generale, le istituzioni culturali disorientate avevano cominciato per improvvisare iniziative online con qualche diretta disordinata per poi mobilitarsi sui social dietro hashtag vagamente autoritari come #iorestoacasa, #laculturaincasa e #laculturanonsiferma in cui le istituzioni c’intrattengono diffondendo immagini di adetti ai lavori trasformati in predicatori dell’era paleocristiana fra le mura domestiche. Vogue l’ha già chiamata “la primavera dell’arte contemporanea”, ma per ora non è altro che ordinaria didattica. Dal canto suo, Flashart risponde entusiasta al nuovo standard chiedendo agli artisti in quarantena di mandare video da casa loro (lettere dal carcere, una vecchia tradizione letteraria) ma molti avevano già cominciato a farlo spontaneamente su Instagram. E per il tempo libero, la scelta è tra i concerti con musicisti sparsi in videoconference o Bocelli che canta da solo in una Piazza Duomo vuota. Il tono lo ha dato il Papa inscenando una messa Pasquale in una Cappella Sistina privatizzata, senza fedeli.

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Jovanotti e Gianni Morandi in diretta Instagram

Se tutti aderiscono a questa corale dichiarazione d’impotenza come fosse la naturale continuazione dei nostri ideali occidentali, perché non porre la domanda: i musei, i teatri e le altre istituzioni culturali sono, vista la situazione, in grado di adempiere alla loro missione culturale? Era già cambiata giacché non erano più i templi della ricerca. Ma per statuto i musei non solo dovrebbero conservare e diffondere la nostra cultura, bensì anche rilevare e promuovere la ricerca più avanzata. Ora che musei e teatri si sono smaterializzati e traslocati sui social (se in questa nuova veste sapranno o no trarne benefici si vedrà), oltre alle attività didattiche aspettiamo di vedere il corrispettivo virtuale – ma che sempre reale deve restare – delle attività scientifiche. Non possiamo lasciare che si riassumano al semplice racconto delle mostre e delle collezioni, né a qualche seppur molto istruttiva diretta streaming di curatori, direttori o artisti in programma.

Ma con o senza il lockdown pare che la tendenza fosse già al surrogato culturale. Il progetto del nuovo Museo Macro a Roma che dovrebbe inaugurarsi in autunno, precorre la riduzione al virtuale: l’intera collezione (un capitale, che dovrebbe cioè fruttare) del museo romano dovrà rimanere nei depositi per essere messa in mostra solo in fotografie come cornice delle acquisizioni del nuovo direttore. Cioè ancora un sacrificio della parte storica. Non ci lamentiamo poi se anche la cultura dipenda dai capricci del mercato con i suoi alti e bassi random.

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Le prove del concerto di Andrea Bocelli in Piazza Duomo il giorno di Pasqua a Milano, 12 aprile 2020. ANSA/Mourad Balti Touati

Altri aiuti, e uno scenario improbabile

Un altro esempio, la Germania, con l’annuncio di un applauditissimo aiuto di 500 milioni di euro a tutti gli operatori culturali previa richiesta online. Tutti in Italia ad invidiare il sistema tedesco che in realtà non fa altro che ridurre la creatività ad un lavoro generico e che non è affatto atto a promuovere la scienza artistica. Alla base dell’arte ci deve essere una scelta che è anche politica: scrittori, musicisti, pittori precisi di cui i politici devono cioè fare i nomi, e con cui devono giustificare la loro politica, artisti dei quali coltivare e organizzare il pensiero a livello sociale. Purtroppo o per fortuna, in Germania quanto in Italia, e ovunque la politica eviterà accuratamente di scegliere gli artisti e gli scienziati la cui ricerca dovrebbe essere alla base dei programmi politici e dei nostri governi: la conoscenza, l’arte, è e resterà clandestina. Alla stregua cioè delle attività criminali.

Ma il mondo reietto della ricerca ha avuto una piccola rivincita con la visita a sorpresa qualche giorno fa del Presidente Macron a Marsiglia, dopo un’accorata mobilitazione di esperti dietro al mitico Professor Raoult. Esperto in malattie infettive e ricercatore, Raoult incarna con la sua clinica l’IHU l’efficacia del trattamento a più basso costo che per ora esista per curare i pazienti affetti da coronavirus. Un protocollo che abbina due molecole Clorochina e Azitromicina al quale il governo francese preferisce un costosissimo trattamento preconizzato addirittura per decreto e rivelatosi inefficace dai test. Un vero fallimento economico, ma anche culturale se notiamo che il protocollo del professor Raoult è anche quello della Cina.

Con il tour scientifico last minute di Macron, si è visto il potere improvvisare troppo tardi, nel momento dell’urgenza e in barba alla quarantena, una visita (pur se di facciata) a vari centri di ricerca francesi. È esattamente quello che il potere senza una direzione culturale – quindi scientifica – crede di avere il privilegio di fare: poter optare estemporaneamente e in balia degli interessi del momento per la strada più vantaggiosa. Un’illusione catastrofica.

Artisti della stoffa e dall’esperienza del Dr. Raoult ci sono, anche e soprattutto in Italia, ma la guerra è arrivata senza un progetto Manhattan: non un politico e di fatto non un museo ha preventivamente voluto reclutare quegli artisti che hanno già inventato il vaccino anti-isolamento e aspettano solo di poter produrre. Ma quale democrazia già arresa e in quarantena sarebbe pronta a schierarsi contro i Paesi esportatori di mascherine, respiratori e altri rimedi intermediari?

 

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