22 ottobre 2020

Genova per noi. E per tutti

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“Genova. More than this” recita il brand del capoluogo ligure. Ma cos'è la Superba oggi? Identikit di una città con tanto passato, in perenne lotta col poco futuro

Genova - veduta della Lanterna - photo Andrea Rossetti

Iniziamo con un gioco, utilizziamo tanta fantasia e il mitico Intervallo Rai per un confronto generazionale. Anni ’70, Toccata in La maggiore di Pietro Domenico Paradisi in sottofondo, immagine con sottotitolo: Genova, la Lanterna. Anno 2020, sempre Paradisi (magari in arrangiamento più contemporaneo), immagine con sottotitolo: Genova, Ponte San Giorgio.

La Superba di oggi? Quella del viadotto crollato e ricostruito nel tempo record di due anni, miracolo italiano che ha fatto parlare la Nazione intera di “modello Genova”. La questione è che la Genova contemporanea tutta questa aspirazione a rappresentare un modello pare non averla. E d’accordo, carrettate di genovesi alle 22:00 del 4 agosto scorso erano in pole position per attraversare il neonato viadotto, nemmeno fosse una giostra. Euforia a parte però, sentimento comune era ottenere un viadotto che riportasse da A a B e viceversa, poco importava se potesse rappresentare un fiore all’occhiello in termini di progettazione e costruzione. Certo, meglio si che no, però qui a Genova va bene comunque. Ci si lamenta, ma alla fine ci si accontenta anche.

A qualche mese dall’inaugurazione, ponte San Giorgio è un po’ come suo papà Renzo Piano: piace quanto basta ai genovesi, meno agli addetti ai lavori. Un giudizio su cui pesa probabilmente anche il valore che s’intende dare ad un manufatto del genere, se più “pragmatico” o “enfatico”. Per intenderci, se quando dicevi “Ponte Morandi” da queste parti ti rispondevano “Ponte di Brooklyn” era certo merito degli stralli, puro esotismo agli occhi del genovese medio. Stringendo però, oltre l’iconicità from USA d’insieme si celava l’enfasi oltremisura di un’infrastruttura dall’alto profilo progettuale, ma che non dialogava affatto con lo spazio circostante. Semmai lo incalzava, mostrando tutte le manie di grandezza dell’Italia del boom economico. Ponte San Giorgio è l’esatto contrario, trasuda pragmatismo nel suo “accomodarsi” al proprio posto, low profile ma non troppo. È genovese dal primo all’ultimo bullone.

Genova – veduta da Castelletto – photo Andrea Rossetti

Genova, l’ibrida

Per fortuna Genova non è solo questo. Come – o meglio di – altre città italiane col tempo ha acquisito una certa abilità nel combinare bellezze e brutture sotto lo stesso cielo.

Una Genova ibrida, dove si può stare sopraelevati, dall’alto di Castelletto a contemplare l’oggettiva bellezza del suo panorama. O coperti, all’ombra della Sopraelevata-alias Strada Aldo Moro, che taglia lo skyline come un’accetta, dividendo in due la facciata di palazzo San Giorgio. Obbligando così i turisti a contorsioni d’ogni genere per trovare l’angolazione utile a rifarne un pezzo unico. Ma erano gli anni ’60, e quando si trattava d’implementare la viabilità non ci si andava tanto per il sottile.

Qualcuno trasalirà, però ci si potrebbe azzardare a considerarla un monumento, ché darle tout court dell’ecomostro da abbattere – e se n’è parlato e riparlato negli anni – è pari a rinnegare il proprio passato, assieme ad un pezzo di storia della Genova industriale, della siderurgia e dell’Italsider.

Intanto resta lì, rinvigorita – a singhiozzo – dal progetto di street art “Walk the line”, nato nel 2016 e a cui forse si sarebbe dovuta dare più fiducia. In fondo la valorizzazione di un punto debole non è detto porti dritto verso un punto di forza, ma è comunque segno che una direzione in testa la si ha.

Genova – Walk the line – photo Andrea Rossetti

Arte contemporanea per tutti i gusti. O forse no

Non è nemmeno solo questo Genova. Forse “Non tutti sanno che” è la città in cui formalmente è nata l’Arte Povera. La stessa – e qui siamo nella rubrica “Strano ma vero” – del Museo di Villa Croce, un boccone amaro difficile da mandare giù. Oggi il museo tira avanti soprattutto grazie al reintegro della responsabile storica Francesca Serrati. Tuttavia resta un’istituzione affossata dal provincialismo generale, con cui non solo le istituzioni locali (da quelle non ci si aspetta mai troppo), ma soprattutto parte della popolazione guarda all’arte contemporanea.

Niente da fare, Genova pare non interessata ad avere un museo d’arte contemporanea che si possa far valere, almeno a livello nazionale. Perché un conto è omaggiare un valido artista autoctono come Raimondo Sirotti; un altro immaginare che eventi di questo tipo rappresentino il non plus ultra per il museo d’arte contemporanea di una grande città. Avere una visione “coi paraocchi” sul contemporaneo per la Genova del 2020 no, non è accettabile. Non stiamo parlando del museo – che so – di Pizzighettone. Con tutto il rispetto per Pizzighettone.

Proprio vero che È un momentaccio, come ricorda l’installazione di Lia Cecchin nel parco del museo, realizzata nell’ambito del progetto “Fondamenta 1” col sostegno dell’Associazione Amixi per L’Arte Contemporanea, ex Amixi di Villa Croce. E sembra di ritornare a qualche anno fa, quando una strada per Villa Croce si stava provando a tracciarla. Un consiglio per Genova: già che ha degli amici se li tenga stretti.

Tomas Rajlch – Black Paintings 1976-79 – installation view – courtesy ABC-ARTE

Turismo, gallerie, START

Genova è molto più di quel patatrac. Ha una piccola quanto valida rete gallerie capaci di portare contenuti di livello, oltre che nuove prospettive rispetto a quella grande factory della cultura che è Palazzo Ducale. E chi fosse stato a Genova l’8 ottobre scorso si sarà accorto che in giro c’era più movimento del solito.

Pausa, qui bisogna aprire e chiudere una parentesi/sfogo: d’accordo, ora è pandemia, ma Genova dovrebbe togliersi quel mood “Staglieno” (diciamo poco vivo?) che la rende scarsamente appetibile al turista medio. Qualcosa in questi termini negli ultimi tempi si sta un po’ muovendo, ma le radicate abitudini “casalinghe” dei genovesi, unite all’idea del “foresto rompiballe” dura a morire, non giovano alla causa.

Riprendiamo. Dietro a quel movimento c’erano le 21 inaugurazioni simultanee di START, la notte bianca dell’arte contemporanea, che le gallerie genovesi in questo annus horribilis 2020 hanno deciso di rispolverare per fare quadrato attorno alla pandemia. Tra queste non ci siamo persi l’inossidabile ABC-ARTE, fino al 7 gennaio con tutte le sfumature di nero dei “Black paintings” di Tomas Rajlich; opere anni ’70 in cui la ricerca dimensionale dell’artista della pittura incrocia quella sulle infinite possibilità del non colore per eccellenza.

Molto meno pulito – e molto più colorato – Michael Beutler da Pinksummer, fino al 28 novembre con una personale talmente corale da farti venir voglia di mettere le mani in pasta. È una specie di fabbrichetta, dove ci si muove – poco e con molta cautela – tra secchi pieni di carta di giornale, e telai su cui sono distesi coloratissimi agglomerati composti da sfere ripiene di cartapesta, essiccati in forno. Una piccola fornace, se preferite un mega “dolce forno”, fulcro di una personale in cui Beautler racconta di aver recuperato materiale per gran parte dal suo studio. Come sempre un maestro della progettualità. E ora anche del riciclo consapevole.

Da andarselo a cercare è invece Prisma Studio, piccolo spazio nel cuore dei caruggi. Qui, fino al 21 novembre, un coinvolgente Giuseppe Mirigliano impiega la sua pratica multimediale per una riflessione organica sulla coscienza umana. Tra passato e presente.

Michael Beutler – Keep beating below 65º – installation view – courtesy Pinksummer – photo Andrea Rossetti

Passato in centro, futuro in periferia

Ma Genova è ancora di più. È il suo passato nobile, le architetture del centro storico. Quei palazzi dei Rolli che a cadenza regolare si aprono al pubblico per animare – ogni volta con successo – i fine settimana dei “Rolli Days”.

È la periferia “aggregata” della Grande Genova mussoliniana, dove nel prossimo futuro sconfinerà il progetto Fondamenta di cui sopra. Dove la street art – territorio della comunicazione visiva che in Italia tira come non mai negli ultimi tempi – ha riscattato il suo linguaggio aggressivo trasformandosi da azione di degrado a benchmark di riqualificazione; con progetti ad esempio come “On the wall”, nato – come il prossimo Parco Polcevera di Stefano Boeri – sulle macerie della disgrazia del Morandi.

Quasi una forma di rivalsa verso un destino cinico e baro. Un destino che la Genova di domani ci auguriamo non solo impari a non subire. Ma a sorprendere.

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