25 gennaio 2025

Pensiero fosforescente ovvero come non scambiare la tecnologia con il futuro. Intervista a Lorenzo De Rita

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All'accademia Abadir, un ex direttore creativo di livello globale racconta come invertire la rotta contro la nevrosi digitale

Lorenzo De Rita è il padre della locuzione che riassume meglio di tante altre alcune delle migliori intenzioni dell’uomo contemporaneo: il ritorno a un tempo lento che nutra l’immaginazione senza la nevrosi dello scrolling digitale, la capacità di non scambiare il futuro con la tecnologia, l’attitudine a concepire la formazione in maniera aperta e non come la formattazione di talenti.

A questo modo di vedere le cose, De Rita ha dato un nome immaginifico e potente, come ci si aspetta da un copywriter e direttore creativo di livello internazionale quale è stato: Pensiero fosforescente, ovvero il pensiero a rilascio prolungato tipico di un oggetto che accumulato la luce a lungo e poi la spande nel giusto tempo. L’opposto dell’incandescenza, che rimanda, al contrario, ai comportanti sbrigativi, sovrapposti, multitasking e frammentati con cui abbiamo a che fare oggi.

Abbiamo incontrato De Rita all’inaugurazione dell’anno accademico di Abadir, l’accademia di Catania di cui era ospite con il suo speech.

Oggi anche la didattica sta diventano fin troppo veloce: come si possono conciliare Pensiero fosforescente e formazione?

«In realtà non ci sarebbe bisogno di nessuna conciliazione, o riconciliazione, tra didattica e pensiero fosforescente. Perché quelli della scuola sono gli anni fosforescenti per antonomasia nella vita di una persona; quelli in cui ci si prepara all’emanazione luminosa che rivelerà, a noi stessi e al mondo, chi siamo veramente. Studiare è immagazzinare sapere, sviluppare idee e punti di vista personali, coltivare le proprie passioni, sperimentare il proprio intuito, accumulare energia emotiva e psichica. Studiare vuol dire dare forma alla nostra personalità e al nostro talento. In questo senso, quando si parla di educazione si parla di “formazione”. Ma oggi, spesso, gli studenti escono da scuole e università più che “formati”,  potremmo dire “formattati”. Tutti simili, tutti mediamente preparati, nessun asino e nessun fuoriclasse, tutti programmati per rispondere alle esigenze del mercato del lavoro, che ha tempi e modi – il tempo, lì in quegli ambienti, è denaro, scorre veloce e impaziente – molto distanti da quelli dell’educazione in cui il tempo, invece, è ricchezza e risorsa dell’anima. Un mercato in cui, purtroppo, un diamante grezzo autentico, come lo sono tutti i giovani, vale infinitamente meno di un diamante con tutte le faccette perfette e luccicanti da sembrar vero, anche se poi a guardarlo bene ci si accorge che è paccottiglia, fatto con il vetro sottile e fragile di una lampadina a incandescenza. Diamanti che durano poco, fulminano quasi subito… »

La nevrosi digitale ha fatto coniare all’Oxford Dictionary l’espressione brian rot, una forma contemporanea di deperimento cognitivo. Davvero non c’è modo di guardare alla tecnologia in positivo, riorientarla verso una visione sana?

«Io non credo che la tecnologia sia nemica della creatività, anzi. Potenzialmente la tecnologia offre mezzi fantastici per esprimere la propria creatività e in modi sempre più sorprendenti. Il problema è che la tecnologia è nemica della sensibilità, che è il materiale di cui è fatta la creatività. Il progresso tecnologico, velocissimo, non va di pari passo con il progresso della sensibilità comune che è invece lentissimo. Risultato: abbiamo nelle mani macchine fantastiche, ma non più la sensibilità per saperle usare nel modo giusto. Ce l’avessimo quella sensibilità probabilmente riusciremo ad inventare una macchina per convertire la superficialità in contenuto!».

La creatività, ha detto durante la sua lezione, è diventata condivisa, non è più il lampo di un genio, cosa tipicamente italiana. Non è più il tempo dei Leonardo e dei Michelangelo, per questo noi italiani, che sul genio abbiamo sempre puntato, fatichiamo a esprimere una creatività nuova?

«È una questione di DNA, credo. Il pensiero è diventato un lavoro come un altro: stressante, di precisione, lungo, ripetitivo e quindi anche un po’ noioso. Il carattere degli italiani mal si adatta a questo modo di pensare il pensiero, pesante e rigido. Noi siamo l’incarnazione della spensieratezza, del pensiero leggero; la nostra creatività è stata sempre divertimento e incoscienza, solarità e spontaneità».

Eppure il radical design radical italiano, tra gli anni Sessanta e i primissimi Ottanta, ha espresso fino a Memphis una progettualità dal respiro collettivo: che cosa si è inceppato? Non siamo più radicali perché non creiamo più in gruppo o non creiamo più in gruppo perché non siamo radicali?

«Radicale è una parola stupenda, una delle mie parole preferite in assoluto. Ma è una parola d’altri tempi. Tempi in cui le idee venivano pensate con l’illusione di cambiare le cose (in modo radicale, appunto), migliorandole, per il bene di tutti. E per cambiare le cose non bastava la voglia del singolo, serviva una voglia collettiva. Oggi, invece, le idee vengono pensate per essere vendute. Per farci soldi, per diventare famosi, che sono desideri autoriferiti di un singolo individuo. Nelle tasche dei pensatori di oggi non ci sono più sogni e ideali, ma solo calcolatrici e specchi».

Il futuro non è la tecnologia: è la stanza che abiteremo domani. Qualche consiglio per nutrire di letteratura, cinema o altro questa visione? E, soprattutto, esiste un modo sano di guardare al futuro?

«Non so, suggerire qualcosa mi è difficile. Potrei dire La Scienza Nuova di Giambattista Vico, il più grande pensatore italiano. Lo sto rileggendo adesso e non finisco di meravigliarmi per quello che trovo in quelle pagina. Ma sono tra quelli che pensano che sia il libro a scegliere te e non il contrario. Sono un kafkiano in questo senso, quando sostiene che “chi cerca non trova, chi non cerca viene trovato”. Però, provo comunque a rispondere alla tua domanda su quale sia un modo sano di guardare a come costruire il futuro. E proverò a farlo con un’altra domanda. Non mia, ma di Chuck Palahniuk: “Quand’è che il futuro è passato dall’essere una promessa a essere visto come una minaccia?” Beh, stabilire il quando sia successo non importa adesso, quello che importa è che oggi davvero vediamo il futuro come una minaccia. Il futuro ci intimorisce, ci spaventa, ci blocca, ci fa rintanare e isolare dagli altri, ci rende meno coraggiosi e quindi meno creativi. Un modo sano di guardare al futuro è quello di tornare a non aver paura di lui. Affrontarlo a testa alta, con la spensieratezza di cui dicevamo prima. Come un posto in cui esaudire la sua promessa di felicità».

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