13 novembre 2020

Stati Uniti sull’orlo

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A pochi giorni dalle elezioni statunitensi ancora in sospeso, la fotografia del Paese lasciata da un giovane artista che vive tra Roma e Chicago

New York 2020, foto di Carmelo Nicosia. Courtesy l'artista

Non esiste un’unica voice of America: per un Paese di 328 milioni di abitanti, parlare di un’unica voce sarebbe ingenuo. Oggi il pluralismo rappresenta meglio gli Stati Uniti. Il problema non nasce da una mancanza di diversità, bensì da un sistema che non supporta la rappresentazione di queste diversità. Tutti i problemi dell’America possono essere ricondotti a problematiche sistemiche. Mentre la politica spesso le nega, il lavoro degli artisti è proprio quello di svelarle superando la singolarità, per accogliere una molteplicità di prospettive.
Ho vissuto un po’ ovunque negli Stati Uniti, ma di recente mi sono trasferito a Roma perché mio marito è italiano. Ho nostalgia del mio Paese e, allo stesso tempo, per me oggi è un sollievo non trovarmi lì. Ho raggiunto la maggiore età nell’epoca di Obama e, come molti americani, non ho preso sul serio Trump, fino alla notte delle elezioni del 2016.
Le parole della poesia di Zoe Leonard I Want a President [Voglio un Presidente] (1992) risuonano oggi più vere che mai: Vorrei sapere perché a un certo punto abbiamo cominciato ad accettare che un presidente sia sempre un clown. Sempre un capo e mai un lavoratore. Sempre un bugiardo, sempre un ladro, mai catturato.
Negli ultimi quattro anni siamo diventati immuni alle dichiarazioni sensazionalistiche che hanno invaso i media, rendendo quasi impossibile discernere ciò che è vero, da ciò che non lo è. Questa ondata di retorica quotidiana è nel migliore dei casi estenuante, nel peggiore pericolosa.
Un principio fondante degli Stati Uniti era che fosse una nazione dai molti popoli, che accogliesse persone di diverse origini alla ricerca di opportunità: un futuro migliore per loro stessi e per i loro figli. Più di qualsiasi altra nazione nella storia, l’America avrebbe dovuto garantire un sistema di uguaglianza, di giustizia e di libertà economica, capace di accogliere tutti coloro che desiderassero “respirare liberi”.
Durante il mio ultimo mese negli Stati Uniti, molte persone in tutto il Paese hanno partecipato alle manifestazioni contro la violenza da parte della polizia, scoppiate in seguito all’assassinio di George Floyd. Da diversi anni passo le mie estati e le mie vacanze in Italia. So bene quanto gli effetti della politica americana si riverberino a livello globale, ma non riesco ancora a descrivere la sensazione che provo quando vedo sui muri delle città europee la scritta I Can’t Breathe [Non riesco a respirare].

New York 2020, foto di Carmelo Nicosia. Courtesy l’artista

A Peoples History of the United States di Howard Zinn contesta il resoconto ufficiale di una glorificazione nazionalista secondo la quale Cristoforo Colombo era un eroe conquistatore. Per disimparare e reimparare, abbiamo bisogno di una molteplicità di voci e di idee, perché una persona sola non può parlare per tutti.
L’artista Wu Tsang si concentra su queste storie taciute e su queste narrazioni marginalizzate. Le sue opere re-immaginano le rappresentazioni di genere e razza nella storia, nel tentativo di includere una pluralità di punti di vista. Realizza video, performance e sculture, con contenuti ibridi che si rifiutano di essere conformi a una categorizzazione. Un approccio simile potrebbe essere utile in politica. Il rispetto per le diversità dovrebbe essere una responsabilità della democrazia, ma in America non è così. Abbiamo invece un’opposizione binaria di ideali, malamente suddivisi tra due partiti. Raramente l’uno o l’altro rappresentano davvero gli interessi del popolo. Il Brand New Congress, un comitato di azione politica che recluta candidati meno conosciuti affinché competano con politici già noti, sta facendo tutto il possibile per cambiare le cose. L’organizzazione è apartitica e trasversale, e si focalizza su principi fondanti che hanno la missione di mobilitare nuovi politici e di riformare il congress.
Questa è l’America che vorrei che i miei amici in Italia conoscessero.

Attualmente, ogni aspetto della vita negli Stati Uniti è politico. C’è un senso di urgenza rispetto alla politica, e l’arte può sembrare meno importante, anche se una cosa non esclude l’altra. La recente mostra online How Can We Think of Art at a Time Like This? [Come possiamo pensare all’arte in tempi come questi?] affronta il tema della produzione artistica in risposta a momenti di crisi. Molti artisti hanno contribuito a iniziative apartitiche per il voto come Plan Your Vote, Art Votes, the Wide Awakes e Artists Band Together. Organizzazioni no-profit per l’arte quali The Vera List Center for Art and Politics, Public Art Fund e Creative Time offrono opportunità e sostegno ad artisti il cui lavoro rifletta tematiche impellenti. La David Zwirner Gallery ha offerto la sua piattaforma digitale per sostenere le gallerie più piccole che non avevano il budget per andare avanti. Molti musei si sono impegnati a dare voce a un più ampio spettro di artisti, indipendentemente da privilegi a loro assegnati in base alla razza, al genere, alla classe sociale, all’orientamento sessuale o al loro credo religioso. Ciò sta avvenendo nella struttura interna dei musei e nelle mostre da loro programmate. Un esempio è il The New Museum Union.

New York 2020, foto di Carmelo Nicosia. Courtesy l’artista

In tempi di crisi, gli artisti tendono a dannarsi all’inverosimile per avere un impatto immediato sul cambiamento. Questo è un intento nobile, ma non realistico. Invece, potrebbe essere più utile considerare come un intervento artistico possa contribuire al dibattito sul cambiamento, senza imporre una particolare dottrina. L’arte consente di registrare il presente e di porsi domande da vari punti di vista. Come possono gli artisti esaminare il passato e meditare sul presente, con la speranza che altri ascoltino e influiscano sul futuro? In Italia, questo tema viene elaborato ogni due anni alla Biennale di Venezia. Il padiglione degli Stati Uniti è un edificio neo-classico “jeffersoniano”, che rappresenta l’ideale democratico ereditato. Gli artisti americani hanno usato questo spazio per affrontare molte problematiche che affliggono il Paese. Ann Hamilton (1999), Robert Gober (2001), Fred Wilson (2003), Allora & Calzadilla (2011) e Simone Leigh (in programma per la prossima Biennale), sono tutti ottimi testimoni del loro tempo.

Non c’è mai stata una divisione così polarizzata come quella del momento in cui ci troviamo a vivere, sul potenziale orlo di un secondo mandato di Trump. Sull’orlo di un potenziale cambiamento paradigmatico.
L’arte da sola non può risolvere i nostri problemi. Nessuna cosa, da sola, può farlo. Sebbene non manchino le sfide da affrontare, sono fiero di fare parte di una comunità artistica, e di provenire da una nazione in cui ci sono persone che hanno il coraggio di sfidare il potere politico con la verità. Accogliere una molteplicità di punti di vista è l’unico modo per progredire. Non fare nulla, non è utile per nessuno.
I miei amici in Italia mi chiedono spesso cosa penso che succederà in seguito a queste elezioni, ma dopo il 2016 non oso più dare nulla per scontato.

Jack Kyle Franklin (1991) è un artista interdisciplinare e scrittore statunitense, con base tra Roma e Chicago. Ha conseguito un MFA alla School of the Art Institute of Chicago, dove è stato docente di arte contemporanea e di scrittura sperimentale.

Traduzione di Cecilia De Rosa

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