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Nell’Appennino Pistoiese c’è una passeggiata contemporanea attraverso arte, natura e architettura
Beni culturali
Le esposizioni d’arte, solitamente, impongono un rapporto di distanza tra l’opera e il fruitore: anche quando parliamo di opere che sono concepite per l’interazione diretta con l’osservatore, raramente, soprattutto se storicizzate, è possibile sfruttarne a pieno il potenziale. Questo non è il caso delle nuove installazioni che inaugurano la passeggiata espositiva all’Oasy Contemporary Art and Architecture (OCA) di San Marcello Piteglio, in provincia di Pistoia. Fino al 7 novembre, infatti, è possibile visitare l’itinerario artistico e architettonico nell’Appennino Pistoiese, un progetto sotto la direzione artistica di Emanuele Montibeller.

La riconversione necessaria: un percorso di conciliazione tra opposti
Il percorso si sviluppa attorno al concetto di dicotomia: la prima opposizione è quella tra natura e umano, tra un’abitazione naturale, un nido, e il materiale con cui viene realizzata. L’enorme alveare Plastic bags di Pascale Marthine Tayou, esposto fuori da OCA, l’edificio adibito alle mostre temporanee, è costituito da sacchi di plastica che ne ricordano il ciclo di produzione, le cui materie prime provengono dall’Africa; l’utilizzo accessorio e momentaneo che ne facciamo contrasta con le modalità molto complesse di smaltimento. L’opera di Tayou parla di globalizzazione e si lega a Home of the world, le bandiere immaginarie di David Svensson, vicino al ristorante di Casa Luigi. In quest’opera è forte il richiamo alle tematiche della rivisitazione e del riadattamento: i pali in legno sono stati sostituiti con quelli in ferro di vecchi lampioni; i simboli delle bandiere provengono da texture esistenti, ma rivisitate per riflettere sulla problematicità dell’aspetto identitario.

Kengo Kuma, Mariangela Gualtieri e Michele De Lucchi all’OCA
Il vincolo paesaggistico del parco impone di non costruire altri edifici all’interno della riserva, cosa che richiede un ripensamento costante del modo di fare architettura e di sfruttare gli spazi già esistenti: questo è ciò di cui ci parla Dynamo Pavilion dell’architetto Kengo Kuma. Kuma ci propone di riflettere sul legame tra pieno e vuoto con le sue enormi spirali in acciaio corten e fibra di carbonio che si attivano con il movimento del vento e con la caduta dei ricci dai castagni creando vibrazioni sonore. Dicotomia è anche inversione e questo aspetto è ben rappresentato dall’opera di Mariangela Gualtieri e Michele De Lucchi Nella terra il cielo, dove l’architetto De Lucchi costruisce un tempio laico senza utilizzare cemento o colle, ma solo legno di cedro, allogeno, e pietra serena locale. Attraverso le parole di Gualtieri, si attua l’inversione di un paradigma storico-sociale: solitamente, a partire da un mito, si giunge alla codificazione di un rito; qua, il rito, l’entrare nello spazio, fa emergere un racconto, di cui ascoltiamo la provenienza del poeta, il cui componimento è pura oralità: al di là delle strutture architettoniche, a rimanere sarà la parola poetica.

Oltre la competitività e verso la simbiosi: Matteo Thun
Ad OCA non si arriva con l’auto, ma con una passeggiata nei boschi di circa mezz’ora. Inizialmente, il luogo era la riserva di caccia della famiglia Orlando. Tutto ciò che è interno al parco, ha ruotato, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi degli anni 2000, attorno alla caccia: i laghi per la pesca e per far abbeverare la selvaggina, gli ampi boschi per il ripopolamento di specie avicole e ungulati. La famiglia Manes ha acquistato la proprietà, creando Dynamo Camp e riconvertendo le strutture abitative già esistenti in teatri, appartamenti, luoghi ludici, avviando una collaborazione con il WWF e aprendosi alla comunità. Questa riconversione ha creato una relazione di beneficio reciproco tra gli ospiti temporanei di OCA e gli abitanti fissi, tra cui animali e piante.

Il rapporto tra allogeno e autoctono è un altro aspetto che caratterizza tutto il percorso nella ricca flora boschiva che circonda sentieri e installazioni. Torniamo alle radici di questa riserva, scoprendo l’abete rosso, autoctono, e l’abete bianco, allogeno, importato dal Nord Italia. Da questa convivenza di specie diverse scopriamo come alcune siano estremamente competitive e rimodellino il paesaggio, e come altre siano più familiari e vivano in simbiosi. Questo comportamento è evocato dall’opera di Matteo Thun Fratelli tutti, il cui titolo riprende l’enciclica di Papa Francesco che richiama ai valori universali di pace e fraternità. In una radura, appena usciti dall’ombroso sentiero di abeti bianchi, c’è un insediamento che ci invita a fare comunità, a ritrovare noi stessi, abbracciando un destino comune.

Cosa resta del nostro passaggio? Quayola e Alejandro Aravena
Le opere giocano con l’aspetto antropologico, invitandoci ad assumere una prospettiva diversa: la posizione esterna delle installazioni favorisce il loro deperimento, a contatto con gli agenti atmosferici. La riflessione di Quayola poggia sul tema dell’erosione e del logoramento, tra naturale e artificiale: in Erosions, le pietre in basalto sono scolpite affidando a un braccio meccanico un algoritmo che mappa la roccia e traccia dei solchi. In questo modo c’è un incontro tra erosione naturale e artificiale. Anche l’opera di Alejandro Aravena, Self regulation, ci invita a un’autoanalisi antropologica: in fondo a un giardino popolato di specie floreali, particolarmente apprezzate da api e bombi, c’è uno specchio, incastonato in un’architettura orizzontale che nasce sulle fondamenta del vecchio letamaio. Come fare per raggiungere lo specchio? Quale passaggio potremo utilizzare per vedere cosa c’è al di là del muro, oltre il giardino? Qui, forse, si può riassumere attraverso i vari gesti dei visitatori il contrasto tra competitività e simbiosi, tra curiosità e rispetto dello spazio altrui.















