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biennale_padiglioni Go east!
biennale 2007
Dalla Russia con amore. Un luna park per riflettere sul lavaggio mediatico del cervello. Ma dopo la Doccia il diluvio. Perché, mentre la Polonia sta in una botte di ferro, tra poverismo e povertà serpeggiano grande depressione e grande freddo. Per fortuna c’è Pinchuck...
di Anita Pepe
Retaggi di un socialismo delabré o rinsaccate varianti d’un più contemporaneo minimal spleen, non tutti i venti dell’Est soffiano freschi e impetuosi. È il caso della neghittosa personale nel Padiglione Ungheria dell’oriundo Andreas Fogarasi, autore di un opprimente allestimento che, mentovando la costruzione di essenziali microcinema, sparpaglia in angusti cubicoli severamente sconsigliati a claustrofobici e obesi una serie poco smagliante di reportage sui centri culturali di Budapest oggidì. Annoiati e imprigionati, depliant maccheronicamente tradotto alla mano, si finisce per giunta col chiedersi quanto sia stato opportuno “riciclare” per l’occasione un lavoro già esposto lo scorso inverno nella galleria viennese Georg Kargl Box.
Dalle “scatole nere” magiare alla “casa bianca” ceca e slovacca, stessa impaginazione respingente, nell’algido ambiente in cui Irena Juzovà ricalca se stessa tramite immacolato silicone. Una prova senza macchia d’originalità, in linea con un datato esercizio di autocoscienza corporea congelato in una macabra allure. Smembrata e confezionata in scatole di cartone a mo’ di bomboniere da sposa morta, l’artista s’offre come fosse una bambola, santa disseminata tra spogli reliquiari o, la testa squagliata qual pupa di cera, Venere postmodern, ritta in una tribunetta da gabinetto anatomico vagamente somigliante a una capsula spaziale.
E, in una Biennale con presenze muliebri fin troppo strombazzate, e retoricamente “femminili” per estetica e temi, si staglia la robustezza di Monika Sosnowska, sul cui solo show si regge il padiglione polacco. Ha puntato sul sicuro il giovane curatore Sebastian Cichocki, affidandosi alla classe di ferro (o meglio d’acciaio) d’un nome già apprezzato due edizioni fa all’Arsenale. Scelta indovinata, giacché la patria esce senza ammaccature da una “gabbia” contorta nella forma ma solida nella sostanza progettuale e nel retroterra storico, architettura monumentale e invadente al punto giusto, babelico rottame 1:1 rievocante l’espansione edilizia postbellica imposta dalla febbre modernizzatrice.
Fuori dagli spazi deputati A poem about an inland sea, bella collettivona allocata nel magnifico Palazzo Papadopoli, alias Padiglione Ucraina, alias Padiglione Pinchuck, giacché le opere, più che la creatività “arancione”, rappresentano la collezione del magnate. Un pacchetto eterogeneo ed icastico, che esemplifica le trasformazioni di un paese dimidiato tra eredità sovietica e sbornia capitalista. Dopo il prologo patriottico a caratteri cubitali, vergato da Mark Titchner, la magione patrizia accoglie la raffinatissima Sam Taylor-Wood e le non sempre riuscite “proiezioni d’arredo” di Alexander Hnilitsky e Lesia Zaiats; il sexy-glam della Kiev rampante ritratta da Jurgen Teller e le “infernali” memorie metallurgiche di Serhiy Bratkov; il fastoso kitsch di Dzine e il quotidiano, talvolta sciatto e miserando, degli scatti di Boris Mikhailov. Ancora foto, ma atmosfera decisamente più decadente, in un altro evento off, Ruin Russia, lapalissiana etichetta d’un corpus documentario poco brillante per resa qualitativa e ingenuità d’allestimento (del resto, la minuscola Schola dei Tiraoro e Battioro come location non è il massimo…), firmato dall’acerbo (23 anni appena) Stas Polnarev, il cui obiettivo ha seguito passo passo l’ultimo anno di vita del più grande albergo dell’epoca comunista (il Russia, appunto).
Una visione emblematica di un sistema smantellato, radicalmente ribaltata nella prospettiva globalizzata dispiegata ai Giardini, dove nel padiglione russo domina il pensiero positivo enunciato fin dall’ingresso dal progetto interattivo di Julia Milner Click I hope. Dentro, alcune fra le proposte più curiose e interessanti tra le partecipazioni nazionali, caratterizzate talvolta da un tocco ludico che dimostra come si possano veicolare efficacemente messaggi importanti senza dover per forza ricorrere a tinte fosche e toni minacciosi. Sicché la cyber Apocalissi animata di AES+F si risolve in una patinata carrellata di citazioni, con giovani plasticamente atteggiati in uno spot cool o un videoclip più che eroici combattenti d’una guerra non guerreggiata, sottolineata da una colonna sonora dal respiro epico.
E “fiato d’artista”, capace addirittura di generare un flutto racchiuso in una teca di vetro, è quello di Alexander Ponomarev, il quale va in onda escogitando – insieme ad Arseny Mescheryakov – una Doccia rivestita di monitor, dai quali piovono ininterrottamente oltre mille canali internazionali, e Tergicristalli che spazzano via il pastone televisivo, alternato a cartoline dalla laguna trasmesse in diretta da una telecamera posta all’esterno dell’edificio. Reality show o lustrazione catartica? Comunque sia, un modo ironico per riflettere sul diluvio universale massmediatico in cui annega una (in)civiltà dell’immagine immersa in una gigantesca fiction. Contro la perdita di contatto, per ritrovare la realtà e i propri simili Andrey Bartenev accende una variopinta messe di led. Allegra, ipnotica discoteca per dare una smossa alla Lonely Hearts Club Band virtuale. Perché, anche nell’era di una Second Life dove si stenta a capire che fine abbia fatto la prima, il ritornello è sempre quello: All you need is love.
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