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LA CARICA DEGLI ART VANDALS
biennale 2007
La 52esima Biennale di Venezia mette in mostra una piccola cerchia di art vandals ed è subito bagarre. Christian Capurro e Yukio Fujimoto rispolverano gli aspetti più cruenti e distruttivi del cancellare. Mentre Felix Gmelin, il loro potenziale padre spirituale, riconferma il suo oramai definitivo ritorno all’iconofilia. Ma ecco altre sorprese...
di Enzo Lauria
All’attuale Biennale di Venezia, il leitmotiv del cancellare, o comunque del disfare e del distruggere è stato rispolverato dall’artista australiano Christian Capurro. Il suo Another Misspent Portrait of Etienne de Silholuette consiste in una copia di “Vogue Hommes” (settembre 1986, #92), le cui 246 pagine sono state sbiancate da altrettante persone con gomma per cancellare. L’artista ha ripulito il magazine da qualsiasi immagine e scritta, ma allo stesso tempo ne ha mantenuto riconoscibile l’identità, lasciandone pressoché leggibile la copertina.

L’intera operazione è durata ben cinque anni (1999-2004) ed è stata scandita da diverse tappe espositive e performative presso istituzioni pubbliche e private. Se Capurro ha elevato l’azione cancellante a vera e propria cifra stilistica della propria carriera, l’artista giapponese Yukio Fujimoto vi è approdato occasionalmente. Per la Biennale espone un giradischi che graffia un disco dei Beatles, cancellandone così ogni originaria traccia audio. Per certi versi si può introdurre in questa lista di art vandals pure Marine Hugonnier, anche se la sua opera tende più all’aniconismo che all’iconoclastia, presentando pagine di giornale in cui i riquadri che dovrebbero contenere immagini di cronaca o d’altro sono stati oscurati da coloratissime composizioni geometriche.
Si potrebbe obbiettare che, nell’ambito di un’esposizione internazionale che conta circa cento partecipanti, sia eccessivo porre l’accento su così apparentemente secondari aspetti. Quando però, come nel caso in questione, oltre ai tre artisti su indicati, viene invitato a esporre pure Felix Gmelin, il loro potenziale padre spirituale, colui che più di ogni altro ha messo in mostra gli argomenti di cui si parla, ci si sente obbligati a rispolverare la questione e a ricommemorarne i vecchi fasti. Gmelin fu già invitato alla 50esima Biennale e, in quella attualmente in corso, cortocircuita le facoltà percettive dell’osservatore accostando dipinti a olio su tela ad altri che solo dopo uno sguardo ravvicinato rivelano il loro essere stampe digitali. Però è soprattutto colui che, a partire dal 1996, attraverso l’esposizione itinerante Art Vandals, pubblicizzò i più illustri e rilevanti sabotaggi su opere d’arte altrui compiuti nell’arco del ventesimo secolo. Tra i dodici casi da lui selezionati, si possono ricordare la cancellazione a opera di Robert Rauschenberg di un disegno di Jasper Johns (1953), la scritta Kill lies all impressa dall’influente gallerista newyorkese Tony Shafrazi sul Guernica di Picasso (1974), le ridipinture operate da Asger Jorn su un dipinto anonimo del XIX secolo (1962) o quelle di Arnulf Rainer.

Gmelin si è limitato a riprodurre fedelmente tali opere, tracce vandaliche incluse, eventualmente apportando qua e là piccole modifiche formali o concettuali. Comunque, come ha sottolineato Daniel Birnbaum nella sua analisi al testo The Destruction of Art di Dario Gamboni [2], le azioni vandaliche appena elencate non sono mai state fine a sé stesse. Hanno sempre implicato una sorta di dialogo con le opere danneggiate, ridestandole dallo stato di morte apparente a cui i musei le avevano costrette, oppure estendendo le loro possibilità espressive in nuove direzioni. Così, per esempio, Brener rivendicava l’artisticità del proprio intervento, poiché apportava un valore aggiunto all’opera di Malevic, mentre Giancarlo Politi ne difendeva il gesto “perché è energia pulsante, perché opera la respirazione bocca a bocca a un’opera morta, quale è ogni opera dell’arte e della cultura sedimentata nella nostra memoria, nelle nostre coscienze e dentro i nostri libri” [3], per poi frenare il suo slancio affermando “di Brener ne basta uno”.
Non vogliamo celebrare o sostenere il vandalismo a fini artistici, ma semplicemente costatare quanto certo fare contemporaneo sia da esso fortemente condizionato. Così, lungi dalle soluzioni estreme appena descritte, le opere di Capurro e Fujimoto esposte in Biennale concedono il dono dell’individualità a oggetti prodotti in serie (una copia di “Vogue Hommes” o un disco dei Beatles) proprio attraverso la loro cancellazione-distruzione. In conclusione, il loro modus operandi -ma anche quello del ridipingere- è elevabile allo status di medium, così come tra l’altro Rosalind Krauss ha già sottolineato a proposito della tecnica del cancellare utilizzata da William Kentridge per le proprie opere video.[4]
enzo lauria
[2] Daniel Birnbaum, The Art of Destruction, http://www.felixgmelin.com/
[3] Helena Kontova, Giancarlo Politi, Francesco Bonami, Sono per un’ideologia dell’arte contemporanea, “Flash Art”, 203 aprile-maggio 1997, p. 70
[4] Rosalind Krauss, Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte d’oggi, Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. 46–47
bibliografia
Dario Gamboni, The Destruction of Art. Iconoclasm and Vandalism since the French Revolution, Yale University Press, New Haven (Connecticut) 1997
Iconoclash. Beyond the image wars in science, religion, and art, a cura di Bruno Latour e Peter Weibel, ZKM, Karlsruhe 2002
*foto in alto: Yukio Fujimoto – Delete (The Beatles) – 2007 – particolare
*articolo pubblicato su Exibart.grandtour. Te l’eri perso?Abbonati!
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