28 ottobre 2021

Artecinema 2021 ha portato a Napoli un nuovo amore per il vecchio cinema

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La ricerca, la memoria e le romantiche sperimentazioni: viaggio sentimentale attraverso la 26ma edizione di Artecinema, il festival dedicato a film e documentari dell’arte contemporanea

Andy Warhol è a tavola, insieme ad altri amici napoletani. C’è Mario Franco che lo riprende mentre lui, a sua volta, gli scatta delle foto. Lucio Amelio al suo fianco, sorridente e soddisfatto dell’atmosfera che si è creata nello storico ristorante “Dante e Beatrice”, di Piazza Dante. Le immagini dell’artista newyorkese sono ai limiti del bianco e nero, scorrono rapide e passano ad altro. Eppure rimane qualcosa negli occhi, sullo schermo, come una polvere, una coda del racconto poggiatasi su quelle sedie, su quel tavolo di legno, un pezzo di memoria insaporito dal sale, dalle salse o della famosa frittata di maccheroni di Antonio Casillo, indimenticato proprietario del rinomato ristorante.

È uno dei tanti spezzoni di vita vissuta che, ogni anno, ammiriamo in Artecinema, il bellissimo festival internazionale di film sull’arte contemporanea, a cura di Laura Trisorio. Con l’inaugurazione del Teatro San Carlo del 15 ottobre e le successive proiezioni al Teatro Augusteo, l’arte è tornata tra i suoi piccoli rituali, il caffè fuori la Funicolare Centrale prima del prossimo documentario, la ricerca di una poltrona morbida per le ore che vi passeremo, i tappeti rossi, le pareti e le scalinate dipinte a mano, le fughe in platea per godersi i film in solitudine. Un rituale che cade a ogni ottobre e che ricorda molto il fascino dei cinema dei tempi andati, quando vi si entrava senza orari predefiniti, quando si guardava un film dalla metà. Perché il bello, l’emozione, era andare a cinema, non solo il film in sé.

Un été à la Garoupe

E quella stessa emozione, del cinema puro e assoluto, la trasmettono alcune pellicole in cartello. Come la bellezza delle riprese realizzate da Man Ray dei suoi amici, il poeta Eluard e sua moglie Nusch, Picasso, Dora Maar e la sua compagna Ady Fidelin, in una spensierata estate del 1937. Raccolte con delicata passione nel malinconico “Un été à la Garoupe”, di François Lévy-Kuentz (France 2020, 52′). I volti immersi nel gioco del sole e delle ombre delle pagliette dell’Hôtel Vaste Horizon, le rocce delle costa del Cap d’Antibes, i ritratti disegnati su carta, le sculture di Picasso sulla sabbia, gli sguardi e gli scherzi a tavola, tra una portata e un bicchiere di vino bianco. Un gruppo di amici, di artisti, geni dell’immagine e della parola che vivono un momento magico e dorato, inconsapevoli di una guerra che travolgerà presto ogni cosa.

Eppure le immagini modernissime dell’acqua del mare della Côte d’Azur, quella grazia che scorre tra le mani è come il gioco senza fine delle loro arti intrecciate alle loro vite. E che solo la trama del cinema può regalarci. Non sempre iconico, storiografico, deflagrante come un’opera ma, a volte, semplice e delicato, come il sorriso triste della impenetrabile Dora, che ci restituisce un pezzetto nascosto di quella incredibile storia che furono queste donne e questi uomini di inizio ‘900.

Quello stesso motivo, quel racconto che rotola on the road e on the beach dei vari Michelangelo Pistoletto, Pino Pascali, Jennis Kounellis, Gino De Dominicis o nella semplice chiacchiera in riva al mare con Alighiero Boetti che Ilaria Freccia ritrae nel suo documentario “La Rivoluzione siamo Noi – Arte in Italia 1967/1977” (2020, 83’), ambientato negli anni di un’Italia divisa tra liberazione e piombo, ove le tensioni politiche e sociali più che scontrarsi sembravano fondersi in un’effervescenza artistica e creativa di massa.

Una forza che in quel decennio attraversò le vie di città circondate da opere d’arte (il Circo di Amalfi, 1968), che si trasferì negli happening di piazza, nei vernissage in garage o sottopassaggi occupati da cavalli, leoni e macchine schiacciasassi (l’Attico di via Beccaria o SPAZIO APERTO a Villa Borghese). E per quanto Fabio Sargentini, fondatore dell’Attico, ci ricorda che «Le montagne vengono scalate perché esistono mentre l’arte viene fatta perché non esiste», essa sembra invece sgorgare da ogni conduttura, portone, tombino, canaletta, ravvivata dalle azioni più minime e apparentemente disincagliate da ogni traccia di senso – come il Pascali che tagliava l’acqua con forbici o segava la sabbia in riva al mare – ma che restituivano un desiderio creativo e ingenuo, ai limiti della letizia infantile.

Ma ancora una volta, anche in questo lavoro multidimensionale, emerge il potere del cinema, cella di trasmissione ideale in cui la rabbia sociale che spinge a coprire le opere d’arte della Biennale di Venezia del ’68 sembra dialogare con l’impacchettamento di Christo del monumento di Vittorio Emanuele II a Milano, merce da packaging pronta per essere portata via nell’evo del boom economico, magari da quella stessa folla di manifestanti, trovatisi lì per caso, ignari della performance dell’artista bulgaro ma corresponsabili della stessa foga cinetica che a scariche, a folate, a fibrillazioni coinvolge soprattutto noi, dinanzi alla pellicola.

Quella stessa pellicola che rende pregiatissimi e quadrimensionali la cartapesta della Scultura di Passaggio di Pistoletto, che oltrepassa le vie di Torino come un normale passante. O il metro da sarto con cui Alighiero (e) Boetti ricorda, sul divano, il gioco di arrotolare quella striscia di nastro morbido da cui è nato lo ziggurat Rotolo di cartone, un’opera austera e silenziosa, ma che non potrebbe mai restituirci lo sguardo bambinesco dell’artista che “fa lavori che tutti potrebbero fare, ma che stranamente nessuno fa”.

E se nel divertentissimo e ironico “Dürer vs Beuys, The Battle” di Peter Schiering, (Germany 2021, 7′) Beuys afferma, non senza ironia tagliente, mentre battaglia con un virtuosissimo e leccatissimo Dürer, che l’eleganza, la bravura, il narcisismo non sono cose importanti ma quello che conta è l’arte creata dalla gente comune, «da un calzolaio, da un infermiere», ecco allora un vagabondo che cerca qualcosa in terra, tra le foglie e i sassi. O una bambina che disegna negli angoli nascosti di un vecchio mobile un’arte che si scoprirà solo un giorno, quando qualcuno sposterà quell’arredo. Ecco, questa ricerca essenziale, delicata e riparatrice, che caratterizza le intime esperienze di Marisa Albanese in “Sguardo Nomade”, di Fiamma Marchione (2017, 18’) e di Christian Boltanski in “J’ai retrouvé Christian B.”, di Alain Fleischer, (France 2020, 90’).

Due racconti struggenti, in cui il ricordo ancora vivido dei due artisti da poco scomparsi si fonde con i loro lavori già intrecciati di poesia e memoria. Ora una fredda scalinata di Palazzo Medici, destinata ai cavalli ma cosparsa di «macchie luminose, di fantasmi fotografici», di volti ridotti a espressioni eterne, uccisi per stessa ammissione da Boltanski, dalla fotografia stessa, che «salva e condanna all’oblio». Sostituisce il volto di qualcuno per ridurre a semplici linee bianche su sfondo grigio e nero. Una forma velata che ne prende il posto, il ricordo e ne annulla ogni identità. Una «costellazione di destini» in una folla di sguardi, labbra, bocche, capelli dimenticati. Ma che tuttavia, insieme, continuano a pulsare, in un racconto visivo che sfugga alla condanna, guadagnandone una patente di immortalità. La stessa che Albanese si è conquistata, lottando con l’incedere delle cose, giocandoci e sfidandone il tempo troppo breve che le è stato concesso, con la delicatezza e l’eleganza delle sue idee come dei suoi supporti, ora quartieri e città di carta volante, ora con i diariogrammi, diari in movimento in cui la mano segue le asperità e il respiro del paesaggi che attraversa. Infine con le radici di Doble Cel, un albero disteso, apparentemente secco ma che, attraversato da flussi di alfabeti e cellulosa, cerca faticosamente di proteggere le radici dei nostri destini sospesi.

Il tempo, il dolore e la perdita vengono così abbattuti apparentemente con armi povere, poetiche ma che hanno il sapore della trascendenza, del respiro metafisico di cui tutti necessitiamo. E cosi, quasi in un finale rusticano, alla distanza, in una giostra di affilatissima avvenenza come di finissima riflessione ecosofica, Wolfgang Laib (“W.L. – Without Time, Without Place, Without Body”, di Francesco Cacchiani, Italia, 2021, 42’) e Marina Abramović (“Homecoming — Marina Abramović and her Children”, di Boris Miljković, Serbia, 2020, 83’) sembrano guardarsi, con un Beuys arbitro e mentore, manovratore e ispiratore. «Sii cauta con il fuoco», suggeriva l’artista sciamano all’allora giovanissima performer serba, che amava colpire con le proprie action il fuoco del potere, delle convenzioni sociali, provocando e denudando le nostre piccole e grandi ossessioni, le nostre piccole e grandi miserie. Cosi Wolfgang Laib, che con le sue ideazioni naturali, fatte di cera e di polline, mostra al mondo la forza inarrestabile di una creatività gentile, che sa muoversi nel recinto, sconfinato e ricchissimo, che la Natura ci ha donato e di cui, materna, ci ha rivestito.

La sfida è, in entrambi casi, estrema. Quale è il limite del proprio dolore, quante ferite, lacerazioni, umiliazioni sono consentite per raggiungere quella pace, quel darsi interiore e silenzioso a cui Marina, come tutti noi, aspiriamo? E quanto è altresì finale e definitivo quell’approssimarsi alla radicalità fisica per Laib, alla ricerca di un’estasi stilita, quasi “lascauxiana”, di ritorno a una perfezione formale e istintuale, fissa e primitiva?

Tutto questo è stato e sarà ancora Artecinema. Dinamiche, immagini, idee e proponimenti che si intrecciano e si affrontano. Tutto finisce con il passo e la parola silenziosa di Beuys, che passeggia nell’ antro della Sibilla Cumana. Eppure tutto ricomincia con Andy che sorride al tavolo di Piazza Dante.

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