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Due parole sulla teatralità di M, il figlio del secolo interpretato da Luca Marinelli
Cinema
Chi non conoscesse il percorso che dal romanzo di Antonio Scurati conduce al serial del regista Joe Wright si potrebbe stupire della “teatralità” riscontrabile in M – Il figlio del secolo, quel Mussolini interpretato da Luca Marinelli comodamente disponibile su Sky. Si usano linguaggi diversi tra cinema e palco, non diciamo nulla di nuovo; eppure gli autori dell’adattamento televisivo sono intervenuti sul gigantesco monstre di Scurati (Premio Strega 2019) con la stessa strategia adoperata qualche anno fa quando Massimo Popolizio portò il medesimo bestseller a teatro.
Per entrambe le trasposizioni (nel passaggio da libro a teatro e da libro a televisione) l’espediente più ragionevole è stato quello di trasformare grosse porzioni di narrato in lunghe funzioni coreutiche, spesso affidate al protagonista. Ma se nel caso del dramma teatrale il dinamismo veniva recuperato dalla solida regia, dalle indiscusse abilità attoriali e da quegli “effetti speciali indigeni” riconfigurati in danza, sul grande schermo il discorso è diverso. Impossibile che nessuno si sia interrogato su questo discrimine, anzi è probabile che si tratti di una scelta deliberatamente glamour, ma gli “a parte” sono come le spezie: bisogna stare attenti al dosaggio. Qualcuno potrebbe ribattere che in arte le regole esistono per essere infrante, certo, ma ciò dovrebbe avvenire quando effettivamente il portato artistico lo consente. È questo il caso? E soprattutto: sono state davvero infrante? O forse M sembra più un videoclip fracassone che mischia Caligari a Natural Born Killers?
Presupponendo l’assioma che “il fascismo e i fascismi fanno schifo”, qui non andiamo al di là di ciò che già sappiamo e nulla di nuovo ci verrà fornito da uno schiumante pamphlet satirico basato su una caricatura tanto abusata da essere ormai frusta e non certo migliore di quelle geniali già forniteci da una gamma di artisti che va da Chaplin a Guzzanti. Altro punto fondamentale è la durata: dal momento che si è deciso di scegliere il formato seriale, perché ostinarsi nella ripetizione degli stessi schemi per otto puntate? Al netto della noia, il racconto dell’evoluzione politica del Paese risulta troppo stilizzata, priva di ogni indagine storica, incastrata all’interno di spazi puramente connotativi: il finto parlamento, la casa collocata nel Rebecchino, le redazioni, tutte sedi in cui si consumano commedie dell’assurdo fatte di tic, grida, mossette e strepiti, conditi da una prurigine sessuale del tutto immotivata. Dall’altro lato gli scontri politici si esauriscono in orge di violenza in stile Clockwork Orange oppure in battibecchi grandangolari che trovano nel carentissimo approfondimento dei personaggi uno dei limiti peggiori alle invece ottime interpretazioni attoriali (una su tutte, la Donna Rachele di Benedetta Cimatti).
Insomma, si può essere sia antifascisti sia attenti al discorso drammaturgico, e in quanto tali avremmo avuto urgenza di assistere a una vicenda umana sfaccettata che vivesse nelle forme espressive della contemporaneità piuttosto che nella mera scimmiottatura di quelle dell’epoca. Di sicuro effetto, certo, ma la scelta risulterebbe comunque innocua anche a fronte di quel Salò di Pasolini che è ancora capace di disturbare a distanza di 50 anni. Ma allora a cosa serve questa operazione? Forse è utile al solo beneficio di un commentario social estremizzato, incapace di individuare scelte artistiche opinabili in un prodotto commerciale che, senza voler recuperare i soliti discrimini con La Caduta, con l’esemplare Trilogia di Sokurov o con il meno riuscito Ultimo Atto di Lizzani, è possibile paragonare a un fuoco d’artificio destinato a esaurirsi con le detonazioni di una sceneggiatura frettolosa e di una regia patinatissima che preferiscono le scorciatoie degli slogan gratuiti all’approfondimento più urgente.