25 ottobre 2025

E il suo nome era Buffalo Bill: intervista al mitico attore John C. Reilly

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Cappelli, clown e altre verità relative, in scena o altrove: intervista a John C. Reilly che, in Testa e Croce, ultimo film di Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi presentato alla Viennale, veste i panni di Buffalo Bill

Testa o Croce?, Heads Or Tails?, Alessio Rigo de Righi, Matteo Zoppis, Italien/USA 2025, V'25 Features

John C. Reilly, nei panni di Buffalo Bill, è il protagonista di Testa e Croce: diretto da Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi, con Nadia Tereszkiewicz e
Alessandro Borghi, il film è ambientato all’inizio del XX Secolo, quando lo spettacolo itinerante del Wild West Show arriva in Italia e si confronta con le tradizioni dei butteri, i cavalieri locali. La competizione tra cowboy americani e italiani sfocia in tragedia, coinvolgendo Buffalo Bill in un inseguimento che mescola mito, storia e spettacolo. Reilly dona al personaggio carisma e teatralità, ritraendo il leggendario Buffalo Bill come figura storica e showman. Ne abbiamo parlato con lo stesso attore, volto mitico del cinema internazionale, a margine della presentazione del film al Vienna Film Festival 2025, attualmente in corso.

John C. Reilly, Ph. Luis Casanova

Da quanto sei a Vienna?

«Non molto, solo pochi giorni. Non è la mia prima volta qui: ero già venuto per il primo film di Paul Thomas Anderson, nel 1993 o 1994. È passato un po’ di tempo…la città è cambiata un po’, ma la struttura rimane la stessa».

Come hai affrontato il compito di portare Buffalo Bill sullo schermo?

«È una figura molto complessa, più grande della vita, ma profondamente umana. All’inizio pensavo fosse quasi un personaggio fittizio. Più leggevo su di lui, più mi affascinava. Da ragazzo era un corriere del Pony Express a 14 anni e scout per il generale Custer. Visse davvero come un vero frontiersman, ma poi decise di raccontare storie esagerate o inventate, perché era ciò che il pubblico voleva.

Una cosa straordinaria è che sua madre era suffragetta e suo padre abolizionista: proveniva da una famiglia molto istruita e progressista. Non era solo un’icona americana; conosceva la verità, ma scelse il mondo dello spettacolo, dove la verità è relativa».

Il film alterna dramma e comicità. Questo tono ti ricorda alcuni tuoi ruoli precedenti?

«In parte sì. Il personaggio è un uomo di spettacolo, un emcee di uno show, e questo mi ha ricordato il lavoro che faccio con il mio spettacolo Mr. Romantic, dove conduco il pubblico attraverso diversi atti. Ma la storia di questo film è unica e molto diversa da tutto ciò che ho fatto prima. È stata una combinazione di elementi diversi».

John C. Reilly, Ph. Luis Casanova
John C. Reilly, Ph. Luis Casanova

La musica gioca un ruolo importante nella tua carriera. Hai influenze particolari, magari anche messicane?

«Sì, è interessante. Ho avuto per anni una band che suonava principalmente folk e bluegrass, e ora con Mr. Romantic faccio più jazz e il Great American Songbook. Il mio collaboratore principale, David Garza, texano di origine messicana, ha una profonda conoscenza della musica Tejana. Sono sempre stato affascinato dalle connessioni tra musica messicana e americana. Ad esempio, Lydia Mendoza, grandissima chitarrista, influenzava reciprocamente il suo stile con la famiglia Carter tramite la radio, nuova invenzione all’epoca. Ci sono molte connessioni tra blues, musica indigena e folk: tutta l’America del Nord è interconnessa».

L’arte ha un ruolo significativo nella tua vita. È vero che collezioni pitture di clown?

«Sì, anche se recentemente ne ho perse molte in un incendio a casa mia. Ho salvato però circa dieci delle mie pitture di clown, il che dimostra quanto siano importanti per me. Avevo solo 20 minuti per lasciare la casa: ho preso cappelli e pitture di clown, mentre mia moglie si occupava dei documenti. Per me l’arte è irreversibile e preziosa».

Cosa rappresenta per te l’immagine del clown?

«In Messico i clown sono ancora una presenza importante nelle piazze, parte dell’intrattenimento di strada. Mi affascina questa antica arte. Negli Stati Uniti contemporanei i clown sono spesso ridotti a cliché nei film horror ma per me sono figure sacre che raccontano molto di noi stessi. Da bambino facevo clown letterali e anche nel mio spettacolo attuale uso solo un po’ di trucco, ma resto nel mondo del clowning».

Come scegli i tuoi cappelli?

«Per me è tutta geometria. La forma del cappello deve seguire l’arco del viso. La distanza della tesa è fondamentale: se è troppo larga, la testa sembra piccola; se è troppo stretta, sembra grande. È importante rivolgersi a un buon negozio di cappelli, che sappia consigliare. Ho due outfit da mariachi incredibili, uno personalizzato dal sarto di Vicente Fernández, regalo di Diego Luna».

Se dovessi descrivere la tua vita con un colore, quale sarebbe?

«Blu. Non so perché, ma è il colore che indosso di più in questo periodo».

John C. Reilly, Ph. Luis Casanova

Testa o Croce può sembrare uno Spaghetti western, anche se mescola generi in modo non convenzionale.

«È curioso sentirlo chiamare Spaghetti western, ma non lo è. Gli spaghetti western, infatti, si ambientano in America o in Messico, ma venivano girati in Spagna, ad Almería, come per The Sisters Brothers. È una storia storica italiana, che racconta un momento importante in cui il western americano è stato introdotto in Italia, dando origine al genere Spaghetti western».

Ricordi il primo film che ti ha fatto piangere?

«Born Free, sulla storia di un leone adottato da una famiglia e poi liberato. L’ho visto in TV da bambino e sono andato a piangere da solo in bagno. Un altro film che mi ha colpito molto è Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato: combina l’innocenza di Charlie Bucket con la saggezza del signor Wonka, e riflette chi sono in realtà».

Qual è la metafora visiva di Testa o Croce?

«Il mio personaggio lancia una moneta. È un simbolo del destino: quanto della nostra vita è casuale e quanto è frutto delle nostre scelte? Ciò che conta non è quale lato cade, ma quale lato desideriamo mentre è in aria».

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