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Dopo cinque anni dal Leone d’Oro per Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, il regista svedese Roy Andersson torna in concorso a Venezia con About Endlessness, un film esteticamente molto interessante, intimistico dramma sulla condizione umana, dotato di un malinconico, sarcastico, a volte tragico, umorismo.
Il film, interpretato da Lesley Leichtweis Bernardi, Ania Nova, Martin Serner, si apre e continua, con ritmi di spiazzante lentezza e immagini di pregevole qualità artistica minuziose e rarefatte, accostando diverse brevi irruzioni nella vita quotidiana di vari personaggi che, insieme, compongono un senso più universale sulla sofferenza che provoca lo stare al mondo (ricco e occidentale). C’è un prete che ha perso la fede, ma sa fare solo il prete, perciò per lo sconforto beve troppo e cerca l’aiuto di uno psichiatra; una giovane donna che attende troppo a lungo il suo uomo alla stazione, in un rapporto perciò già stanco e per lei mortificante; una coppia di genitori che visita la tomba del figlio con il loro dolore devastante. Quasi sempre si tratta di scene brevissime, non c’è un’interazione dinamica tra le storie, non sembra esserci una logica narrativa di stampo cinematografico (che dovrebbe essere una storia narrata attraverso immagini in movimento), ma si capisce che questa è una cifra stilistica nata da una scelta precisa, quella di raccontare come la vita sia un insieme di casualità, incomunicabilità e incertezza e come Il sogno sia un’illusione. Tutto nelle ambientazioni del film sembra finto, senza riferimenti temporali e geografici precisi, ogni scena, pur esteticamente poetica, vuole risultare soffocante, grigia e monotona, forse per rendere l’idea dell’infelicità, del senso di smarrimento, della vergogna di non riuscire ad essere se stessi, della disperazione celata nella stessa, normale, piccola, esistenza. Nell’insieme però si percepisce anche una speranza, che forse è proprio nel provare a distaccarsi da quello che ci succede per riuscire a osservarlo da un’altra prospettiva e così salvarsi, perché ci possiamo salvare solo da soli, se anche Dio non esiste.

La riflessione sui rapporti umani continua nel film Guest of Honour del regista Atom Egoyan, regista canadese di origine armena che torna in concorso a Venezia quattro anni dopo Remember. Il nuovo film, interpretato da David Thewlis, Laysla De Oliveira, Luke Wilson, Rossif Sutherland, narra di come la percezione della verità cambi a seconda degli occhi che la guardano e lo fa attraverso un rapporto padre figlia, che lui pensa perfetto e lei pensa tremendo, e una condanna al carcere per la figlia, obiettivamente ingiusta, ma che lei pensa di meritare, per un’altra storia passata e anche quella fraintesa. Verità celate e mal interpretate che infettano rapporti e condizionano vite vissute. Il regista svolge il suo racconto su cinque linee temporali diverse che si intersecano e si scambiano. Anticipa tragedie del passato in flashback, per poi spiegarne lo sviluppo, in un susseguirsi di eventi. Il personaggio del padre regge molto bene, per com’è delineato e per l’interpretazione convincente di Thewlis, ma lo svilupparsi della trama non convince e un po’ delude.
È il giorno di The King, film in costume di David Machôd, fuori concorso, liberamente ispirato all’Enrico IV e V di Shakespeare, e nel ruolo principale c’è il ventitreenne Timothée Chalamet, uno dei giovanissimi talenti cui guarda il cinema internazionale. Il successo del film di Luca Guadagnino Chiamami col tuo nome lo ha lanciato verso progetti molto ambiziosi e l’attore è già stato nominato ai Golden Globe e agli Oscar.
Il bel giovane ha milioni di fan sui social, molti anche qui al Lido, in attesa già in darsena quando è arrivato con la fidanzata, nonché attrice nel film, Lily-Rose Depp.
Noi, per non cambiare idoli troppo in fretta ed andare sul sicuro, restiamo in attesa anche del padre della piccola, Johnny, atteso per venerdì.
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