11 giugno 2023

Il sol dell’avvenire: l’inghippo da “fan service” nell’ultimo film di Moretti

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Le canzoni stonate, la sessualità aggirata, il pasticcere trotzkista, Battiato. Poi l'orrore per la violenza, le parole importanti, ancora Battiato. Una stroncatura per amore

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Nanni Moretti è l’unico autore ad aver completamente aggirato le logiche del mercato. E questo non può che essere un bene. È l’unico regista al mondo in grado di fare i film di Troisi con i tempi realizzativi di Kubrick e ottenere solo ovazioni o favoreggiate obliterazioni nei casi d’insuccesso (vedi Tre Piani). Non esiste eguale in Occidente. E ovviamente questo non può che essere un bene per noi che lo amiamo. Ma allora dove sta l’inghippo? Forse e col beneficio d’ogni dubbio, sta nel pubblico.

Il pubblico di Moretti, infatti, si distingue in due branche. La prima è quella più radicale che rivede i propri contenuti (quelli della borghesia di sinistra, s’intende) parodiati dall’unico mandante autorizzato, cioè Moretti stesso. A questa categoria appartengono tutti quelli che non vedono Henry perché se n’è parlato male in Caro Diario o che hanno la tendenza a trasformare le comiche indolenze autocritiche del regista in precetti religiosi da applicare alla vita quotidiana. Ma non funziona così. Sarebbe come pensare di abbracciare lo stile di vita di William Burroughs solo perché ci interessa la vicenda beat. Il tacito accordo che c’è tra l’artista e il fruitore consiste nel fatto che la libera espressione del primo potrà essere garantita proprio in base al distacco che c’è dal secondo. In questo paradosso risiede anche il ruolo dell’arte stessa. Essa è tenuta a esplorare gli stati dell’umano seguendo un itinerario esclusivo che si manifesta nell’opera che ne scaturisce. In poche parole, noi “paghiamo” gli artisti per mostrarci luoghi accessibili soltanto a loro. Ecco il perché di “esclusivo”.

In linea con ciò, quindi, non è neanche sostenibile l’accusa di autoindulgenza. Mai. E qui entriamo nel merito di un secondo punto critico. Se il problema non è l’autoindulgenza, allora esso risiederà poco più in là, in quello che, usando un inglesismo da infarto morettiano, oggi definiremmo fan service, ovvero quel fenomeno che si verifica quando il mandante delega la responsabilità della propria opera a un pubblico affezionato (o claque) in modo da sostenere un progetto incompiuto o destrutturato, ma poco volutamente tale. Ecco in breve cos’è la prima categoria di fan: una claque.

Poi, fortunatamente, c’è la seconda categoria, quella a cui appartiene quest’umile sottoscritto vergante. Noialtri intendiamo (e attendiamo) Moretti come un Woody Allen italiano. In base a tale cifra, ogni tic e ogni “atletismo di se stessi” (citando il docuRAI degli anni ’80 a lui dedicato), sarebbe da recepire come un numero comico e non come un comandamento. Quelli come noi danno ragione a Monicelli quando gli disse qualcosa tipo: «Hai deciso di entrare in polemica con la commedia all’italiana, ma di fatto hai realizzato una commedia all’italiana». Lì, sotto l’occhio vigile di Arbasino, il confronto tra commedia al disarmo e nuovo cinema cciovane aveva le vestigia di tenzone tra Un borghese piccolo piccolo e Io sono un autarchico.

Era il 1977 e si era nel pieno della crisi che, fino ai primi anni ’90, avrebbe consegnato il cinema nostrano a un tipo specifico di nuovi autori, quelli che qui chiameremo, non a caso, “autarchici” cioè Verdone, Troisi, Benigni, Nuti (per non citare l’altro giancattivo Benvenuti) e, in minima parte, Nichetti. A questo gruppo andrebbe accostato anche il Nanni, anche se in maniera decisamente apocrifa. Tutti gli altri, infatti, partivano dal bacino fidelizzato della televisione o l’avrebbero fatta in seguito (Nichetti) mentre lui, Moretti, la TV l’ha sempre e solo frequentata per scopi promozionali. In altre parole, se vedi Moretti in TV vuol dire che sta per uscire un suo film. Oppure è appena uscito. Oppure sta preparando un girotondo.

Mentre gli altri facevano i comici, lui faceva la sua personale nouvelle vague, dando le basi alla cifra poetica che lo ha consacrato, quel calembour autocratico fondato sulla reiterazione: la crisi della sinistra e il film mai fatto, le scarpe e la Sacher, le copertine di lana all’uncinetto e Piazza Mazzini, gli amici francesi e Roma con pini marittimi + case ocra, Margherita Buy e Silvio Orlando, le canzoni stonate e i buffi tentativi di prevenzione critica trasformati in tormentoni, la sessualità aggirata e i palleggi, Battiato e Laura Morante, i registi che non gli piacciono e l’orrore per la violenza, la pallanuoto e le parole importanti, il pasticcere trotzkista e poi ancora Battiato e gli sguardi stralunati, eccetera eccetera eccetera. E questo è proprio quello che noi fan (della prima come della seconda categoria) vogliamo. Il Morettiverso.

Qui il problema non è né l’autoindulgenza né l’autonarrazione perchè altrimenti dovremmo ignorare questa cifra di cui siamo seguaci e che ci ha fornito un nuovo, originalissimo pantheon di memorabilia. Ed è proprio per questo che nel 2006 attendevamo l’uscita del nuovo film con lo stesso entusiasmo con cui si aspettano le reunion delle rock band, tributando un fervore incrementato dal lungo lasso di tempo trascorso tra Aprile e Il Caimano, vacuo della non morettiana Stanza del figlio. È esattamente quel fervore che è mancato quest’anno in cui il lasso tra il flop obliterato (vedi sopra) dei Tre Piani e Il sol dell’avvenire risulta un po’ sotto la media per non lasciarci pensare a una sorta di tentativo di riscatto. L’intento era forse quello di dare un terzo capitolo alla piccola saga di Caro Diario e Aprile, questo è chiaro, ma qui qualcosa non funziona. Qui siamo di fronte a tutt’altra storia.

Il problema del Sol (ammesso che di problema si tratti) è la manifesta tendenza a deresponsabilizzarsi e, di conseguenza, a consegnarsi nelle mani sicure di quei fan della prima categoria che lo accudiranno, bastevoli di repetita e canzoncine destrutturate. «Il tuo film è un film sovversivo», recita Mathieu Amaric mentre monopattina per Piazza Mazzini riferendosi al quasi film del quasi pasticciere trotzkista che il Nostro sta girando. E se fosse arrivato il momento di girare proprio questo film? Anche qui il fantasma riemerge. Solo che ora somiglia più a un aborto di masque autocitazionista da fan service (infarto morettiano) più deteriore.

Ed ecco che si torna al pubblico. Se esso è chiamato a un ruolo così attivo, vuol dire che esso è considerato massa critica. E allora per qual motivo esiste pochissima valutazione obiettiva al recente cinema di Moretti? Per amore, ovvio. E naturalmente chi scrive vedrà e rivedrà il Sol e poi acquisterà il disco da affiancare alle copie (sia DVD che VHS) degli altri film da aggiungere alla propria limpida collezione. E lo farà perché questa non è una stroncatura. Chi diavolo siamo noi, comodamente afflosciati in poltrona, per ordirla?

Questa è una riflessione da fan della seconda categoria. Ma l’artista qui è sicuro di non essersi afflosciato anch’egli in poltrona? Comunque, che siano cinque o dieci anni non importa, noi saremo lì ad aspettare la nostra rock band.

Per amore, ovvio.

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