15 febbraio 2024

Gli Altri, un thriller sulle nostre esistenze: intervista a Daniele Salvo

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Gli Altri, un thriller sentimentale e dal sapore pirandelliano, che svela le dinamiche di controllo delle nostre esistenze: ne parliamo con il regista teatrale Daniele Salvo, alla sua prima cinematografica

Gli altri, still dal film, regia Daniele Salvo
Gli altri, still dal film, regia Daniele Salvo

Gli Altri, l’opera prima cinematografica di Daniele Salvo, tratto dall’omonimo libro Premio Strega di Michele Prisco, è arrivato in sala dopo essere stato presentato al BiFest2023 e all’ Ortigia Film Festival 2023. Nel cast, Ida Di Benedetto, Peppe Servillo, Gianfranco Gallo, Lorenzo Parrotto e Gioia Spaziani. All’inizio doveva dirigerlo Bernardo Bertolucci. Rimasto in un cassetto per quasi 20 anni, Gli Altri è una storia claustrofobica, un film teatrale, una storia senza veri riferimenti spazio temporali dal sapore pirandelliano.

Daniele Salvo lo descrive come «Un thriller sentimentale dove sono gli altri che determinano le nostre esistenze, anche quando siamo soli, anche quando non lo sappiamo. La nostra vita non è che un riflesso. La città diviene un labirinto, l’intrico dei vicoli metafora della mente dei protagonisti, le stanze sono estremi rifugi di anime cristalline, le strade sono le vene di un destino superiore. Attraverso un utilizzo non realistico della fotografia, insieme a Fabio Zamarion (Direttore della fotografia), abbiamo creato le atmosfere di una città sospesa, surreale, dai colori lividi. È un “non luogo” quasi metafisico. I vicoli, le scale, i corridoi, le strade fangose, la pioggia, lo squallore degli interni, i cortili, i soffitti marcescenti, attivano nello spettatore la necessità di un ricorso all’olfatto, o addirittura al tatto, per integrare e completare l’esperienza proposta dall’immagine».

Daniele Salvo
Daniele Salvo

Dopo anni passati tra teatro greco e Shakespeare, le regie di spettacoli all’I.N.D.A. di Siracusa, arriva la prima regia cinematografica. Perché hai cambiato linguaggio?

«Devo ringraziare Ida di Benedetto per avermi proposto questa sceneggiatura. Quando seppi che doveva farlo Bertolucci, ma stava già male, ho sentito il peso della responsabilità. La fortuna è stata anche quella di avere a fianco due grandi professionisti come Fabio Zamarion e Massimo Quaglia, direttore alla fotografia e montatore di Tornatore e di Özpetek».

Ida Di Benedetto è una donna impegnativa. Com’è stato dirigerla?

«Non semplice. Ida è un’anima inquieta, una donna molto forte che vuole decidere, partecipare attivamente al processo creativo e per un regista non è facile. Ma il bello di Ida è proprio questo: che ha una natura selvaggia, indomita, che in scena o sul set vuole che si veda il suo aspetto sanguigno».

Pensi che Bertolucci avrebbe dato un taglio più cinematografico?

«Dipende. Bisogna vedere cosa significa cinematografico. Sono molto appassionato di un certo cinema: Bergman, Tarkovskij. Faccio riferimento a un certo cinema d’autore. Ci sono straordinari film d’azione, più dinamici, girati in un altro modo, ma servono anche grandi budget. “Gli Altri” è un film girato in quattro settimane con piccolo budget. Il cinema è legato al budget».

Un film indipendente come il tuo, nonostante la sua qualità, trova sostegno nel tax credit?

«Diciamo di sì, ma è una questione delicata. Questo film è stato sostenuto dal Ministero e dalla Puglia Film Commission. Le film commissions hanno una grande importanza perché sostengono anche operazioni più indipendenti e meno commerciali, però sono equilibri all’interno dei quali è sempre difficile muoversi .

Molti film non vengono neanche distribuiti o restano in sala pochi giorni. Gli Altri è rimasto nelle sale otto giorni. Un film che ha un numero di copie elevato, con un budget elevato per produzione e pubblicità, è avvantaggiato perché avrà più visibilità, indipendentemente dalla qualità del film. Un film indipendente, senza una grande produzione alle spalle, con limiti di budget, distribuito in pochissime copie, se viene distribuito, è ancor più penalizzato».

Sei in tournée con due riprese e un debutto. Tre regie completamente diverse…

«Venere e Adone: è uno degli ultimi spettacoli voluto da Gigi Proietti al Globe Theater prima di morire. Un testo scritto al tempo dell’epidemia di peste a Londra, quando i teatri rimasero chiusi tre anni, e col quale ho debuttato al tempo del Covid. Una pièce sull’amore dove gli attori non potevano nemmeno toccarsi. Al centro della scenografia una scatola rotante di plexiglass, per un testo che parla di baci, abbracci, amore. Questo rende ancora più struggente parlare d’amore come solo Shakespeare sa fare. Uno spettacolo fortunato che sta ancora girando dopo diversi anni.

Amy Winehouse è una nuova produzione di Bis Tremila, come Édith Piaf. Insieme a Mia Martini, fanno parte di una trilogia su grandi storie di cantanti. Amy Winehouse ha debuttato da poco, lo stiamo ancora rodando e arriverà a Roma nella prossima stagione. Sono spettacoli più pop, ma impegnati. Amy Winehouse è sugli ultimi giorni di vita della cantante così come Édith Piaf, che la racconta ormai malata, preda dell’artrosi, che non vuole tornare sul palco e viene convinta da Bruno Coquatrix, l’impresario dell’Olimpia, a fare l’ultimo concerto della sua carriera che ebbe un trionfo incredibile.

Poi c’è un quarto spettacolo, che ha appena debuttato, prodotto da Silvio Orlando: Io e lei della giornalista Fiamma Satta. Uno spettacolo particolare sulla sclerosi multipla, difficile ma originale perché è la malattia che parla. Melania Giglio interpreta la malattia mentre lei è la sua “gentile ospite”, come dice nel testo Fiamma. Piacque molto a Piera degli Esposti che voleva interpretarlo, ma poi non fece in tempo.

Ogni tanto mi piace fare delle incursioni anche nella drammaturgia contemporanea, in questo caso autoriale perché i testi sono originali».

Allievo di Ronconi, per te è centrale il teatro di parola…

«A New York, Londra, Berlino, i grandi spettacoli sono di teatro di parola. Poi c’è una deriva performativa bellissima frutto anche di grandi investimenti in campo culturale. Da noi si è preferito scimmiottare certe operazioni sperimentali e si è un po’ perso il lavoro sulla parola, sull’attore. Lavorando con i giovani, vedo che nelle scuole spesso si fa molta danza, tante cose, tranne il lavoro sui testi. Questo, a mio avviso, è un problema. Adesso c’è questa tendenza a usare il testo come un pretesto: faccio Shakespeare per dimostrare che Shakespeare non mi interessa o non scriveva bene. Allora perché lo faccio?».

Il Teatro di Roma sta affrontando una transizione difficile. Come affido un primariato a un bravo medico, dovrei mettere alla direzione dei teatri grandi esponenti di quest’arte?

«Penso che quelle scelte siano il frutto del rapporto del teatro con la politica. E quando la politica interferisce così pesantemente nella cultura, e ormai in Italia è la normalità, destra o sinistra che sia, è un disastro. Pur non mettendo in discussione la competenza e la professionalità delle figure scelte, spesso si tratta di giri di poltrone oppure si cerca di mantenere uno status quo in cui si le grandi istituzioni evitano di rischiare. Il Public Theater di New York, un grandissimo teatro che ogni anno si occupa anche della rassegna “Free Shakespeare in the Park” a Central Park,  è stato diretto fino a qualche anno fa da un ragazzo di 27 anni. Qui prima dei sessant’anni non si arriva da nessuna parte, perché in quel lasso di tempo uno si deve creare i rapporti politici».

Il sistema Strehler-Grassi, dove uno si occupava del lato artistico e l’altro del lato manageriale, funzionava, ma forse perché non nasceva come accoppiata di poltrone ma come sinergie tra due professionisti…

«Lì c’era una competenza straordinaria e soprattutto i teatri non erano delle strutture elefantiache. All’inizio, con Strehler e Grassi, c’erano pochissime persone che hanno fatto la differenza, occupato un cinema, creato una realtà artistica. Via Rovello era un ex cinema che venne occupato: tutto nasceva da una esigenza artistica, non politica. A mio avviso, il teatro non deve essere terreno di scontro politico o degli scambi di favori politici. Perché così è un disastro».

Vorresti una tua compagnia, ma la compagnia di giro è l’opposto del teatro stabile…

«In Italia è quasi impossibile. Pensa che Luca Ronconi aveva un sogno nel cassetto: fondare una sua compagnia, anche al Piccolo Teatro. Ma mi disse: in Italia è impossibile, un po’ perché gli attori sono come delle api che vanno di fiore in fiore passando da una fiction a una posa, e poi perché le condizioni non lo permettono e i parametri ministeriali non incoraggiano questa formula. Chiunque abbia una compagnia deve faticare molto. Certo, i registi hanno i loro attori di riferimento, però poi è difficile mantenere una compagnia. Uno per tutti, un carissimo amico che non c’è più, Micha Van Hoecke, grande maestro ex direttore de l’École Mudrā di Bruxelles, collaboratore stretto di Maurice Béjart, ha avuto un ensemble per 25 anni; ma negli ultimi 5 ha fatto una grandissima fatica e ha dovuto chiudere la compagnia perché non c’erano più le condizioni per mantenere 35 ballerini e dare loro un lavoro assicurato».

I teatri stabili ricevono bei finanziamenti…

«Ma molto spesso i soldi vanno nell’amministrazione e non agli artisti».

Immaginando il tuo futuro, torni al cinema o ti fai una compagnia?

«Mi piacerebbe fare entrambi perché sono attività interdipendenti: all’estero è la normalità. Gli attori inglesi vengono dal National Theater o da compagnie teatrali. Ralph Finnes, per citarne uno. In Italia ancora assistiamo a questa crasi tra cinema, teatro e televisione con famiglie di potere diverse. Per un giovane attore che esce oggi da una scuola, è quasi impossibile orientarsi, è un affanno continuo a cercarsi dei protettori. Ed è un disastro perché fa parte della corruzione dell’anima dell’artista».

Adesso prima fai su una produzione firmata Netflix e poi impari a recitare?

«Sì, oltre a questa ricerca ossessiva del nome quando si fa una produzione. Ti chiedono chi c’è senza neanche conoscere l’operazione. Ci può anche essere il nome altisonante, ma è l’operazione artistica da valutare.

Il problema è che tutto si è trasformato in prodotto. Come diceva Pasolini, siamo noi diventati prodotti, consumatori consumati. Quando ho fatto una regia al Teatro di Stato di Costanza, in Romania, mi hanno fatto provare tre mesi e mezzo. In Russia le prove durano 9 mesi, perché c’è un processo artistico, qualcosa da svelare, da trovare. In Italia si mette in scena il King Lear in 25 giorni.

Ma credo che qui resterà così perché non c’è la volontà di cambiare».

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