15 febbraio 2025

In the mood for love torna al cinema per il suo 25esimo anniversario

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Nelle sale la versione restaurata del film-capolavoro che parla di amore, tradimento, tempo, illusione. E li rende universali

In the Mood for Love
In the Mood for Love, 2000

In the Mood for Love (Faa yeung nin wa, 2000) è al secondo posto nella celebre – e arbitraria – classifica dei film del secolo secondo BBC (2016) e adesso, a 25 anni di distanza dalla sua primissima uscita, torna al cinema in versione restaurata dal 17 al 19 febbraio. Rappresenta un momento miliare nel lungo percorso di assalto asiatico al declinante cinema d’Occidente (un assalto che va da Lanterne Rosse a Bong Joon-ho); ma è anche un film occidentale nelle forme (come lo sarà, anni dopo, Parasite) e orientale nelle composizioni, e unisce al virtuosismo una prospettiva profonda, tutta votata su tre concetti fondamentali: il tempo, la memoria e la verità, nous ricorrente in tutta la filmografia del regista Wong Kar-wai.

La trama, in breve. Hong Kong, 1962: in una casa comune abitata da profughi di Shanghai avviene l’incontro di Chow Mo-wan con Su Li-zhen, due inquilini afflitti dall’infedeltà dei rispettivi coniugi. Tra partite di mah-jong, piogge torrenziali e cibo, incuranti della temperie politica circostante, i due inizieranno a collaborare alla stesura di un romanzo condiviso, simbolo della loro nascente storia d’amore clandestina.

Rallentamenti fisici dei gesti e interruzioni (in)volontarie del passo si alternano a slow motion cinematiche e pause di pellicola. Teatro i primi, full cinema i secondi, in un esempio del dualismo fondamentale che andremo a scoprire. E poi specchi, orologi, scarpe, tegami, bicchieri, tessere di mah-jong, la persistenza degli oggetti che acquisiscono il peso specifico consentito solo a teatro. Ciò accade perché il film non è soltanto un’opera sul tempo, ma lo lavora direttamente, materialmente, tecnicamente, banalmente attraverso la grammatica del montaggio, un’operazione di asciugamento che riduce la sua durata all’essenzialità dei 93 minuti e produce l’effetto che pochissimi film possono permettersi di fare senza ricorrere al metalinguaggio. Qualcuno nel descrivere Pulp Fiction disse qualcosa di essenziale cioè – parafrasando – che collassa in un presente assoluto. Ebbene, è proprio quel che accade nel film di Wong Kar-wai; il tempo si sospende in un processo di memoria e il suo fluire non ha alcun senso se non in termini assoluti, eternamente qui e ora.

Kar-wai va di riduzione. Ciò che conta è il risultato perché, dopotutto, il film annulla qualsiasi ascendenza ed è solo quel che è nella sua forma-racconto. È totale perché compositivo, in senso assoluto: inquadrature perfette, punti di sguardo insoliti, uso del riflesso da saggio cattedratico. Il montaggio crea delle ellissi profonde, nascondendo sia i volti dei coniugi fedifraghi sia i congressi carnali tra i due amanti traditi e – soprattutto e coraggiosamente – rimuove i nessi di causalità tra le sequenze, annullando così il prima e il dopo, rilasciando tutta la vicenda a uno statuto immaginario che galleggia nell’iconografia della gloriosa Hollywood, nella ricodifica dei modelli fisici e prossemici della Nouvelle Vague (costrutto masculin/feminin ad esempio) in stile Leo Caràx e nella sospensione surreale di un indoor perenne in stile David Lynch, una sospensione chiusa destinata a risolversi nell’enigmatico finale in cui il protagonista, alla luce del sole, sussurra qualcosa tra le crepe di Angkor Wat – forse la trama del film stesso, forse quella del suo seguito.

In the Mood, infatti, è il vertice di una trilogia che trova la sua conclusione in 2049 (2004), oggetto filmico memorabile che tuttavia, nel miscelare fantascienza allegorica a raffinatezze formali, non possiede la grazia del suo predecessore (anche se, in compenso, ne esplicita il motore di concetto – quello dell’arbitrarietà di memoria e verità, e trascina l’uso dell’episodicità dal feudo del cinema di genere alla saga intimista, in una prassi che ricorda quella di Kieslowski dei Coleurs e Dekalog).

Tanto da vedere insomma, tanto da dire. Forse troppo per un film che in realtà ben si definisce in quello che Michele Chiusi (su Ondarock) ha scritto dei testi di Ian Anderson per giustificarli della loro eversione dal prog: «semplicemente belli». Eversione, la stessa di Wong Kar-wai dalle forme dell’Oriente e da quelle dell’Occidente, eppure a entrambe affine. 25 anni per un oggetto filmico assoluto che osa sfidare il tempo e la noia con uno strumento essenziale: la grammatica.

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