15 novembre 2022

Monica, una vita (e una storia) di tutti: intervista al regista Andrea Pallaoro

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In occasione del Vienna International Film Festival, abbiamo raggiunto il regista italiano Andrea Pallaoro, per farci raccontare di “Monica”, la sua ultima prova. E per parlare di cinema e vita

distretto viennese. Non occorre, almeno per questa mattina, vestirsi di abiti avvolgenti e pesanti. Qualche raggio solare pare indugiare in maniera più netta nei paraggi della Johannesgasse, al numero 28: uno di essi si posa, senza remora alcuna, sulla cornice dell’infisso di una camera in particolare, all’Hotel InterContinental. Al suo interno, due uomini snodano, fra sguardi velati di malinconia e innegabile sensibilità, flussi di immagini e parole, intrecciando trame e tessuti, di cinema e vita vissuta. Si tratta di Andrea Pallaoro, affermato regista italiano trapiantato negli Stati Uniti, e di Oscarito Sanchez, regista e giornalista messicano da tempo attivo nella capitale austriaca.

Lo scambio di battute tra i due, in occasione della Viennale – Vienna International Film Festival, pur godendo di una sottile distensione, è ricco: scava in profondità, non teme pregiudizi. Il risultato di quella conversazione è ora qui proposto agli occhi di quei lettori che, in questo momento, avvertono dentro di loro un moto di tensione che li conduce alla ricerca: per andare oltre, per proseguire avanti. Lo troveranno, forse, in “Monica”, ultima prova cinematografica di Andrea Pallaoro? Non resta che scoprirlo, insieme.

Andrea Pallaoro, Viennale 2022 / Heidrun Henke

Eppure, prima di procedere nel racconto di una conversazione che solca mari vasti e abissali, si rende necessario un avviso ai naviganti, che dia contezza della rotta che Andrea Pallaoro ha desiderato, insieme ai suoi collaboratori, tracciare con questo film. “Monica” è, sia concettualmente che tecnicamente, sia nelle parole che nelle inquadrature, sia nei gesti che nel formato, un ritratto: non solo di uno, di più personaggi, ma di una storia che tutte e tutti, prima o poi nella vita, abbiamo vissuto.

Chi non ha desiderato essere guardato da vicino? Chi non si è trovato, a conclusione di una serata fallimentare, con la macchina in panne nel bel mezzo del nulla? Chi non ha ballato seminudo mentre si preparava per un’uscita che, illusoriamente, credeva rivelatrice? Chi, tra noi, si è sentito dipendente, rifiutato, non voluto ma, poi, ha smesso di opporsi titanicamente a quei gesti di rinuncia e ha scelto la via dell’accettazione, della consapevolezza, della saggezza che – per gli altri e per noi stessi – conduce nelle sue profondità? “Monica” è varietà cromatica tonale e percorso da vicino nella vita delle persone, alla ricerca di quell’equilibrio che porta all’accettazione del mondo e del sé nel mondo. Andrea Pallaoro, stimolato dai brachilogici spunti di Oscarito Sanchez, ci mostra – nell’intervista che segue – la stella polare da seguire: il suo nome è perdono.

Iniziamo da una domanda molto semplice: perché le donne?

«Trovo questa domanda d’inizio molto bella e ispiratrice. Sono sempre stato attratto dall’universo, dalle complessità femminili, forse perché le donne – sin dalla mia infanzia – hanno avuto un’importanza fondamentale: penso a mia nonna, le mie zie, a mia mamma. Sono sempre state dei punti di riferimento, dei paradigmi. È quindi cosa naturale per me interfacciarmi con quel mondo, senza alcuna consapevolezza di pensiero. C’è poco da fare: è un universo che mi affascina tantissimo. Detto questo, sono anche pronto a esplorare altri universi, come quello maschile: difatti, credo che il mio prossimo film verterà molto su quest’ultimo».

Monica chiude una trilogia cinematografica che è iniziata con Hannah, giusto?

«In realtà, “Monica” è il secondo capitolo della trilogia: “Medeas” è un film che, seppur mira ad esplorare delle dinamiche simili, in realtà non rientra a pieno titolo nella trilogia. “Hannah” e “Monica” sono due film che esplorano proprio il tema dell’abbandono: ne approfondiscono le conseguenze, le dinamiche. Mi interessa particolarmente come tema perché sono consapevole di quanto esso sia condizionante nei nostri rapporti e anche di come sia un qualcosa con il quale tutti facciamo i conti, in un modo o nell’altro. Non posso non riconoscerne la forte presa che possiede sul modo in cui ci relazioniamo gli uni con gli altri, ma anche sulla maniera in cui ci rapportiamo con la società. Mentre, però, con Hannah, osserviamo sempre attraverso il prisma dell’abbandono questa donna che fatica a fare i conti con il suo passato, con sé stessa, con la sua identità, in Monica assistiamo, invece, quasi ad un processo inverso: osserviamo una donna che riesce in un qualche modo a rapportarsi con i suoi traumi, con le sue ferite, a guarirle anche, e ciò accade attraverso il perdono. È questo, per me, a renderla una specie di eroina moderna: è un personaggio a cui tengo molto».

Per usare una metafora visuale: potremmo dire che sia necessario ritornare al passato per cercare il perdono?

«Certo, assolutamente. Infatti, credo che la percezione di chi siamo e del mondo che ci circonda sia chiaramente impostata sulla nostra esperienza, sulla nostra storia e, quindi, sul nostro passato. Per rimarginare le sue ferite, i suoi traumi, Monica ha bisogno di perdonare e di fare i conti con il suo passato. Il suo viaggio verso la casa della madre, verso la sua infanzia, verso tutto il suo passato è un tuffo in quell’universo. “Tutti i nodi vengono al pettine”, si direbbe: prima o poi, non possiamo non fare i conti con chi siamo stati e con le nostre esperienze».

Monica, come Hannah, sono nomi che addirittura divengono titolo dei tuoi film: hanno a che vedere con il tuo passato?

«I nomi, no: devo dire che provengono della fantasia. Tuttavia, i personaggi, sì. Sono un insieme di tante parti di me. Pur non essendo dei film autobiografici, perché non dicono della mia storia, raccontano alcune parti di me e delle storie di persone a me care, anche se lo fanno indirettamente, chiaramente. Io mi rispecchio, mi ritrovo molto in questi personaggi».

Vorrei ci soffermassimo, adesso, su aspetti più tecnici: ieri ho visto che la camera segue da vicino Monica. Qual è lo scopo di questa scelta? Quello di cercare, forse, di esplorare, il personaggio nell’intimo?

«La vicinanza a Monica, l’intimità che ne deriva, è un qualcosa che è stato importante sin dall’inizio per me: dare la possibilità allo spettatore di esserle vicino, di starle accanto. Eppure, volevo comporre non solo una vicinanza fisica, ma anche una volontà di penetrare il suo mondo interiore. Trovo che una delle cose – tra le più interessanti, eccitanti, entusiasmanti che il cinema possa fare – sia quella di penetrare il pensiero, l’emozione del personaggio. Ne consegue che tutti gli elementi della grammatica cinematografica, che i miei collaboratori ed io abbiamo scelto, sono stati indirizzati proprio verso questo obiettivo».

Parliamo del formato: inusuale!

«Naturalmente, lo è! È un formato, però, che la mia direttrice della fotografia, Katelin Arizmendi, ed io abbiamo scelto perché volevamo privilegiare il volto, il corpo rispetto al paesaggio. Difatti, abbiamo scelto – parlando, adesso, concretamente – il formato 1.2:1, che ricorda molto quello del ritratto fotografico, più quadrato. Questo, fra le altre cose, mira a sottolineare ancora di più la claustrofobia e la co-dipendenza che due o più corpi sperimentano all’interno della stessa inquadratura. E poi, mi ha dato la possibilità di elaborare in maniera crescente sul fuori campo, e quindi sul rapporto fra interno ed esterno, fra psicologico e fisico. Perché succede questo? Siamo abituati ad un’inquadratura molto più larga, comprensiva di tante cose: invece, mettere lo spettatore davanti ad un’inquadratura decisamente più ristretta, immediatamente dà questa sensazione di prossimità che per me è stata molto importante, non soltanto nell’approccio con il personaggio, ma anche nei confronti della storia in generale».

Per quanto riguarda la tua esperienza, com’è stato lavorare con Adriana Barraza, che ha interpretato brillantemente il personaggio di Leticia?

«Adriana è un’attrice straordinaria. Non nascondo di aver scritto il personaggio di Leticia pensando ad Adriana: la volevo da subito. Il suo consenso, il fatto che mi abbia detto tempestivamente di sì è stato di rilievo per me. Sono andato sul set, abbiamo pranzato insieme, ed ancora una volta si è verificato il colpo di fulmine: lei è una delle rare attrici del cinema contemporaneo che veramente fa sognare, regalandoci delle performance straordinarie. Sembra di sperimentare veramente una dimensione onirica, perché è un’attrice che ha la capacità di essere e di diventare il personaggio, invece che recitarlo, e questo è raro ed è spia di un talento incredibile. È un fatto importantissimo nel mio lavoro con gli attori. Perciò, spero vivamente di lavorare di nuovo con lei».

Alcuni critici hanno posto l’accento sul carattere trans di questa storia: ascriveresti Monica a questo genere?

«Dunque: Monica è un personaggio trans e quindi, come tale, posso capire che la sua storia venga definita trans. Tuttavia, per me è una storia universale, a cui tutti noi possiamo fare riferimento. È la storia di una famiglia che tratta il tema di non essere riconosciuti, di non essere accettati e, nel caso di Monica, chiaramente questa cosa è estremizzata, perché la sua identità è stata messa in discussione, e questo ha delle conseguenze molto profonde. Tuttavia, è qualcosa che tutti abbiamo conosciuto, in un modo o nell’altro. Comprendo che il film possa essere identificato in questo genere, ma io non ho mai esplorato la storia secondo questi pareri. O, meglio: sono molto consapevole della caratura di questa scelta. Il fatto che Monica sia trans è fondamentale, perché il suo personaggio è ispirato ad una persona a me molto cara, una mia amica, e ho voluto onorarla in questo. Ma bisogna andare oltre la sua identità di genere: è una storia molto più universale di questo. Credo che, in definitiva, lo scopo ultimo si quello di concentrarsi sul complesso, e a volte complicato, rapporto che un individuo intesse con la famiglia, con la società».

Monica mostra tre donne diverse: la madre, Leticia e Monica.

«Certamente. Difatti, ci sono per me delle scene molto belle, quando sono tutte e tre insieme. Sono tre donne molto, molto diverse e che danno la possibilità allo spettatore di rivedersi, di riflettersi in modo differente, anche. È stato un grandissimo onore – oltreché un piacere – lavorare con tutte e tre e creare questi personaggi, portarli alla vita insieme a Patricia, Adriana, Trace. È stata un’esperienza indimenticabile che conserverò nel mio cuore per tutta la vita».

Il perdono, il ricongiungimento familiare: sarebbe questo il cuore del film?

«Sì. Penso che, se non è proprio il cuore, è uno dei cuori del film. Man mano che i miei collaboratori ed io, evolvendoci nei confronti del film, lo creavamo insieme, credo di essermi sorpreso in prima persona notando quanto il perdono andava assumendo un ruolo sempre più importante, sempre più cruciale, fondamentale».

La nostra società ha bisogno di perdono?

«Penso che il perdono sia importantissimo per evolversi, per andare avanti, per non restare ancorati al passato, e che ci permetta di fare un salto in avanti. Quindi, sì: ne ha bisogno».

Passando, adesso, alla tua storia di spettatore e osservatore cinematografico: tre riferimenti alla filmografia messicana del passato che fanno parte del tuo sguardo?

«Il cinema messicano è straordinario ed è stato di grandissimo insegnamento per me. L’ho seguito molto e mi ha veramente emozionato. Dal punto di vista più contemporaneo, Carlos Reygadas, per esempio, e il suo Silent light, come altri suoi film, hanno risuonato molto in me. Però, un regista che ha lavorato tanto in Messico e che ha avuto un ruolo altrettanto importante è Luis Buñuel, sebbene non sia messicano di nazionalità. Nel nuovo cinema, ad esempio, Amat Escalante, Alfonso Cuarón: il suo Roma è stata una boccata di aria fresca, meraviglioso. Poi, chiaramente, ci sono Alejandro González Iñárritu, Guillermo Del Toro, che hanno portato dei paradigmi molto interessanti. Però, su tutti, direi che è Carlos Reygadas il riferimento veramente importante per me».

Com’è stata la tua esperienza di girare film negli Stati Uniti? C’è differenza con l’Italia?

«Sì, devo dire che io oramai vivo negli Stati Uniti da più di vent’anni, a Los Angeles e, quindi, quando penso alla parola “casa”, essa diviene un riferimento molto complesso. Naturalmente, le mie radici sono in Italia e io mi sento molto italiano: tuttavia, mi trovo a vivere una perenne condizione di straniero, che mi si addice molto, sia in Italia che negli Stati Uniti. Anche quando ritorno in Italia mi sento tale, perché ho vissuto tanti anni all’estero. Del resto, anche il mio cinema è così. È un cinema che ha una sua identità precisa, e che non si riferisce solo all’Italia, all’Europa, o solo agli Stati Uniti, ma che si fa linguaggio in relazione sia a un mondo che all’altro. Nel caso di questo film, però, è sicuramente per me strettamente statunitense, perché, malgrado affronti delle dinamiche universali, è comunque ancorato, radicato in una struttura societaria americana definita. Era dunque fondamentale per me che venisse realizzato negli Stati Uniti».

Che consiglio daresti ai giovani – italiani, messicani, da ogni parte del globo – che vorrebbero diventare registi, ma che immaginano questa carriera, che hai fatto tu, impossibile?

«Il consiglio che ritengo più importante credo sia quello di non cercare di seguire dei paradigmi, delle formule, o di copiare – sia volontariamente che involontariamente – esempi di cinema che, magari, sono stati d’impatto per loro. Vorrei suggerire di guardarsi dentro e di riuscire a trasmettere allo spettatore uno sguardo molto personale: in poche parole, il loro modo individuale di guardare il mondo. Penso che questa sia la cosa che li renda preziosi, ed è ciò che cerco nel cinema, o in generale nell’arte: il fatto di guardare il mondo attraverso nuovi occhi, e di farlo con sincerità. Quindi, chi riesce in questa impresa – che non è facile – di farci guardare il mondo attraverso nuovi occhi e con onestà, è vincente per me».

C’è una parte di Andrea in tutti i film che hai fatto?

«Sì, assolutamente. Io mi rispecchio molto nei personaggi e negli stati emotivi e psicologici che ho esplorato attraverso di loro: sono emozioni e psicologie nelle quali non solo mi identifico, ma che mi appartengono, in un modo o nell’altro. E non sto facendo riferimento alle storie, o alle scelte che i personaggi compiono, ma proprio ai loro sentimenti, alle loro emozioni. Quindi, sì: in questo, mi racconto molto con i miei film, e non potrebbe che essere che così per me».

Un’ultima domanda, di rito: di che colore è la tua vita?

«Direi che cambia di colore in continuazione. In questo momento, il colore che più mi sento addosso è un’ocra, una sfumatura dorata. Così mi sento, adesso. Però, qualche giorno fa, sicuramente era più blu o, prima ancora, più verde. Direi che dipende proprio dai vari momenti che mi trovo ad attraversare».

Seguire un’esistenza a colori cangianti, più o meno definiti, più o meno sfumati, è – in definitiva – la scommessa che Andrea Pallaoro porta avanti con i suoi personaggi, con il suo modo di interpretare il prisma di luce che proietta stati interiori, persone, ambienti e atmosfere sulla pellicola. L’intenso pensiero del cinema come una stanza di molteplici variazioni luminose segna il percorso che il regista desidera, con sensibilità e delicatezza, tracciare nelle attente pupille dei suoi spettatori.

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