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Testa, croce e le altre facce del desiderio, nel film di Zoppis e Rigo de Righi
Cinema
di Oscar Sanchez e Chiara Zenzani
All’inizio del Novecento, il leggendario Wild West Show di Buffalo Bill approdò anche in Italia, portando con sé il fascino e la violenza del mito americano. La storia viene raccontata da Testa o Croce, film diretto da Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, presentato all’ultima Viennale. Rosa (Nadia Tereszkiewicz), prigioniera di un matrimonio con un potente latifondista, trova nell’incontro con Santino (Alessandro Borghi), un giovane buttero dal cuore libero, la possibilità di una fuga impossibile. Ma la loro corsa verso la libertà scatenerà una caccia implacabile, dove sogno e realtà si confondono sotto il sole crudele della Maremma. Dopo aver sentito il mitico attore John C. Reilly, che nel film interpreta Buffalo Bill, ne parliamo con i registi, Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi.

Da dove nasce il titolo Testa o Croce?
«Il titolo esisteva già dall’inizio del progetto, e ci piaceva la domanda che racchiudeva. Il film nasce da una leggenda famosa, che avevamo sentito da ragazzi, sulla sfida tra i butteri italiani e i cowboy americani durante il World Wild West Show di Buffalo Bill. Abbiamo sviluppato la nostra storia a partire da quell’episodio. C’è sempre stata l’idea della sorte, del destino, di come la vita possa prendere direzioni diverse per una piccola coincidenza proprio come il “testa o croce” che nel film serve a decidere chi dovrà domare il cavallo. È il punto di partenza della narrazione, anche se nel film questo momento arriva un po’ più avanti. Il titolo ha anche una doppia valenza: le due facce della verità, le due versioni di una storia, i due volti di un’identità. Racchiude molti dei temi del film».
Com’è stato il processo di casting?
«Abbiamo fatto tantissimo casting. Quando scrivi un personaggio, spesso hai già in mente chi potrebbe interpretarlo, che sia un attore noto, come Alessandro Borghi (a cui abbiamo pensato fin dall’inizio), o John C. Reilly, perfetto nel ruolo di Buffalo Bill. Ma anche i non attori del film, come il Cagnaccio o la Guardia, erano persone reali a cui ci siamo ispirati. Gabriele Silli, protagonista di Re Granchio, era già nella nostra mente mentre scrivevamo. Con Nadia Tereszkiewicz, la protagonista, il processo è stato un po’ più articolato. Abbiamo lavorato con il casting director Francesco Vedovati, che ci ha fatto diverse proposte. Quando abbiamo incontrato Nadia, abbiamo capito subito che era la nostra Rosa. Vedovati ci ha anche suggerito Gianni Garco, un’altra scelta perfetta».
Come è nato il contatto con John C. Reilly?
«Lo abbiamo contattato via Zoom. Ovviamente ha letto la sceneggiatura: per contattare un attore americano bisogna passare attraverso manager e agenti, ma grazie al nostro produttore siamo riusciti a fargliela arrivare direttamente. Lui l’ha letta e ci ha detto: “Ragazzi, io sono già Buffalo Bill”. A quel punto tutto è andato molto velocemente».

È il secondo film che fate insieme?
«In realtà è il quarto. Abbiamo iniziato con un cortodocumentario di 30 minuti, Belvanera, poi Il Solengo, un documentario di 70 minuti, quindi Re Granchio e infine Testa o Croce».
Come funziona il vostro lavoro a quattro mani?
«Non ci dividiamo rigidamente i ruoli: facciamo tutto insieme. A volte è più pratico che uno si occupi di un aspetto e l’altro di un altro, ma c’è sempre una doppia revisione costante. Il regista di solito è solo, anche nel senso letterale, ma in due hai sempre qualcuno con cui confrontarti. Da questo dialogo nascono spesso soluzioni nuove, quasi sempre migliori».
Che ruolo ha la musica nel film? Perché avete scelto Vittorio Giampietro?
«Con Vittorio e Gian Pietro collaboriamo da anni: abbiamo trovato un linguaggio comune. Vittorio viene spesso sul set e inizia a pensare alla musica già durante le riprese. In questo film volevamo creare una sorta di ballata western, in cui i personaggi cantano direttamente in scena, narrando parti della storia come se fosse un racconto cantato».

Avete girato in digitale, 35mm o 16mm?
«Principalmente in 35mm. Alcune scene d’azione sono in 16mm, mentre altre parti, come quelle del Wild West Show, sono state girate in digitale. Abbiamo scelto di combinare formati diversi per dare al film texture e sensazioni differenti».
Avete usato più lingue nel film?
«Sì. Ci sono scene in cui si parlano spagnolo, inglese e italiano. Peter Lanzani, ad esempio, interpreta un capo ribelle, e la presenza di Buffalo Bill a Roma ci permetteva di mettere in dialogo l’America e l’Italia. Io ho madre americana, quindi questo intreccio culturale mi interessa molto. Il Wild West Show era già all’epoca un luogo multiculturale. Abbiamo voluto inserire una protagonista straniera in terra straniera e, trattandosi anche di una fiaba, ci siamo presi qualche licenza poetica».
I primi western che avete visto?
Zoppis «Ricordo di aver visto da bambino Un uomo chiamato cavallo, poi ovviamente tutti i film di Sergio Leone. Ma i western che mi hanno colpito di più sono stati quelli di Sam Peckinpah.
Rigo de Righi «Io ricordo McCabe & Mrs. Miller, un western ambientato in un luogo non desertico, molto diverso dal solito. Mi piacciono anche i film di Corbucci, come Il mercenario o Corri uomo corri. Il primo che mi ha davvero sconvolto è stato Il buono, il brutto e il cattivo. A proposito di Peter Lanzani: lo conosciamo da tempo, è un amico. Era a Roma per preparare un altro ruolo e abbiamo deciso di coinvolgerlo. Sembrava scritto per lui».

Possiamo dire che Testa o Croce è un western con una direzione femminista?
«Sì, assolutamente. È un film sull’emancipazione: racconta come Rosa riesca a liberarsi dalle oppressioni della società, rappresentate dal marito e dagli uomini che cercano di dirle cosa fare. Ci interessava sovvertire il genere western: mettere in crisi la figura eroica del cowboy e sostituirla con quella di Rosa, che ne ribalta completamente la prospettiva».
Qual è la metafora visiva del film?
«(Ride) Questa ce la devi dire tu! Forse l’ultima scena, con Rosa e la moneta che gira in aria: non conta tanto il risultato — testa o croce — ma il desiderio che hai mentre la moneta è sospesa».
Quali registi messicani contemporanei vi ispirano?
«Siamo grandi fan di Carlos Reygadas, e ovviamente di Cuarón. Anche Natalia López Gallardo, la moglie di Reygadas, è un’artista che ammiriamo molto. Il Messico ha una cinematografia ricchissima, continua a produrre film straordinari».
Il film uscirà anche in America Latina?
«Sì. Sarà presentato al Festival di Mar del Plata, in Argentina, e speriamo esca nei cinema argentini ad aprile, durante la Settimana del Cinema Italiano. È già stato al Festival di Rio de Janeiro e dovrebbe partecipare anche a quello di San Paolo. Speriamo di poterlo portare anche in Messico».
Un consiglio per i giovani registi italiani?
«Girate. Il nostro primo documentario era autoprodotto: solo noi due, una 16mm, e pellicole avanzate di Kodak. Bisogna appassionarsi a una storia e ascoltare il documentario è un ottimo esercizio per questo. E poi: leggere e guardare film, sempre. Solo così si cresce».
Di che colore è la vostra vita?
Zoppis «Direi gialla. Ho un approccio sinestetico, quindi il colore per me è un linguaggio».
Rigo de Righi «Io direi verde».














