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Ai tempi di Cosmopolis (2012) c’è chi si è entusiasmato per il ritorno di David Cronenberg alle geografie del nonluogo – si trattava di Don De Lillo, in quel caso – individuando nel piccolo oggetto filmico un ricorso ai modelli primigeni della sua poetica che, arricchiti da un bagaglio trentennale, finiva con il glorificare anche Robert Pattinson. Missione compiutissima. Con The Shrouds, ora al cinema, il nonluogo diventa invece iperluogo e si qualifica nel più iconico dei modelli letterari dell’orrore: il cimitero. Ricordiamo che prima di essere l’auteur che piace ai Cahiers, Cronenberg è un regista fanta-horror: provinciale di provenienza, iscrive le geometrie dei suoi racconti in un universale fantastico che finge di essere ambientato in USA – cioè il mondo conosciuto hegeliano in base alla cifra dell’hollywoodianesimo – e racconta di tutto e di tutti noi, in modelli propri della fantascienza, ma con la funzionalità analitica propria del genere dell’utopia (o distopia in questo caso).
La trama in breve: grazie alle funzionalità di un cimitero hi-tech di cui è proprietario il voyeurismo capitalizzato di Karsh (Vincent Cassel) lo porta a scoprire tracce di anomalie organiche sulla salma della moglie (Diane Kruger). È il principio di un’indagine cospirazionista tra paranoia del desiderio, intrigo internazionale, inverificabilità postmoderna dei dati e paradossale racconto metaforico del dramma intimo del lutto.
Il problema della futuribilità del presente in fantascienza è un tema che nasce con la progressiva tecnologizzazione della società a seguito delle massificazioni produttive e ha indotto alcuni autori a interrogarsi sulla natura stessa della propria opera. Tra questi c’è anche David Cronenberg. Il suo cinema è infatti un processo nomotetico che colloca le rivoluzioni generali in periferie dimenticate, dietro chiese sconsacrate alla periferia di Pittsburgh, in sale congressi con moquettes illuminate al neon, in centri commerciali disegnati alla maniera dei più marroni anni Settanta, sul retro di ristoranti etnici arredati alla buona, su balconi con vista tangenziale est; in quell’universo semiotico, insomma, che appartiene alla vita quotidiana delle periferie e delle province e in cui consiste la sua propria mitopoiesi, un processo che si nutre dell’inevitabile e progressivo uso che la realtà fa di dispositivi che prima erano fantascientifici e oggi sono diventati quotidiani. È ciò che è avvenuto con il mito delle videochiamate dagli anni Ottanta a oggi, in un mondo in cui il cloud, la galassia app e i modelli paradossali di imprenditoria del voyeurismo movimentano fette di mercato rilevantissime. In The Shrouds queste nuove istituzioni vengono ritratte attraverso la metafora epica del cimitero multimediale, un OnlyFansdella morte che estremizza l’uso effettivo di tecnologie quotidiane e le iperbolizza in direzione paradigmatica, sempre naturalmente affine al modello della “bellezza interiore” (Dead Ringers, 1987).
Ma di che parla il film? La domanda è analoga a: ma di che parla L’incanto del Lotto 49 di Thomas Pynchon? Sì, perché dall’ultimo Crimes of the Future (2017) il pantheon autoriale di Cronenberg si è arricchito di un senso del sospetto ora più che mai pynchoniano che fa della trama una cavia sperimentale, un organismo mutato destinato a restituirci un intrigo insolubile pieno di informazioni contraddittorie proprie del disegno di un complotto universale gemellare a quello interiore del desiderio, a modello delle grandi dipendenze del futuro (o del presente ormai). È esattamente quello che si verificava in Videodrome (1983): un cancro prodotto da allucinazioni registrate produceva allucinazioni a loro volta registrate dalle misteriose corporazioni che producevano il nastro su cui registrarle, e il tutto era narrato nel microcosmo periferico delle TV private.
Qui i lasciti delle corporazioni si manifestano in rapporti domestici lenti e ciabattanti, tra battibecchi da commedia brillante newyorkese sbiadita, in un Canada che somiglia al sogno diluito di un Central Park disegnato dall’AI e che rimanda allo schema delle appropriazioni del nostro privato da parte dei nuovi tecno-potentati. E, come nel film nel 1983, c’è qualcuno che pasticcia con le menti e con i nastri, solo che nel frattempo siamo passati dalle videocassette agli smartphone. E David Cronenberg non solo si è aggiornato, ma ha assunto anche un tale prestigio da poter ridefinire il concetto stesso di finale, con buona pace del disappunto spettatoriale. Specchio, questo, di un vigore oltraggiante che ci riporta alla giovinezza di uno dei più grandi autori della contemporaneità cinematografica.