08 settembre 2020

Venezia 77: “Spaccapietre” dei fratelli De Serio, bellissimo e drammatico

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I fratelli De Serio portano a Venezia “Spaccapietre”, in concorso alle “Giornate degli Autori”, la sezione indipendente della Mostra del Cinema

Nel 1987 Nanni Balestrini pubblicava lo sperimentale Gli invisibili i cui protagonisti, incuneati in quel proletariato generazionale che formava il movimento del 77, si organizzava per costruire una utopia di vita. Più segmentati, complessi e sfarinati sono gli invisibili del nuovo millennio, e sono proprio queste soggettività fragili a innescare il plot del bellissimo e drammatico film Spaccapietre di Gianluca e Massimiliano De Serio, passato in concorso ieri nella sezione “Giornate degli autori” alla 77 Mostra del Cinema di Venezia. I due gemelli (Torino, 1978) che operano insieme dal 1999,  hanno realizzato, fra l’altro, nel 2011 il loro primo lungometraggio Sette opere di misericordia e nel  2015 I ricordi del fiume.

La magia che i gemelli De Serio riescono a distillare in un sostrato tematico quasi sempre urticante, è cosa ben nota, oramai. Il loro cinema, fuori da ogni stereotipata categoria, riesce ad amalgamare intimità e socialità in un ossessivo smascheramento delle pieghe della realtà. Ed i rivoli di una estetica che adduce alla storia dell’arte in filigranati rimandi è, per loro,  così inconscia da incastonarla, magicamente, nella pelle del film.

Non li definirei, come spesso accade, makers del filone “cinema sociale o impegnato”, etichetta blandita troppo spesso e troppo superficialmente in Italia. I De Serio sono degli amateurs del cinema d’auteurs con cui si son nutriti e formati, tanto da aprire nel 2012 una loro sala d’essay, Il Piccolo cinema, a Torino.  Dunque scavalcano i canoni per prediligere un cinema apolide e deviante, quasi onirico e anche narrativo. Cosa che accade per questo ultimo (già pluri-premiato) Spaccapietre, che nel titolo rimanda al dipinto del 1849 Les Casseurs de pierres di Gustave Courbet, ma che riporta il soffio autobiografico (il loro nonno negli anni 60 faceva lo spaccapietre in Puglia) e dunque i lacci che avviluppano film, vita privata e storia sociale costituiscono una alchimia che sa, anche, di elaborazione della perdita.

Il film (realizzato, tra gli altri, con il contributo del MIBACT e il sostegno di Europa Hopefulmonster/Fondazione Merz) tratta la storia di Giuseppe (nel film Salvatore Esposito) che, dopo un incidente sul lavoro si ritrova disoccupato. Il figlioletto Antò (un adorabile Samuele Carrino) sogna di fare da grande l’archeologo e pensa che l’occhio vitreo del padre sia il segno di un superpotere. Rimangono soli dopo la morte improvvisa della mamma-moglie  Angela, sfiancata dal lavoro di bracciante stagionale e  persa la casa Giuseppe é costretto a chiedere lavoro e asilo in una tendopoli. Il film, sottilmente psicologico e socialmente esplosivo, è ispirato alla morte sul lavoro di Paola Clemente e viene assimilato alla morte della nonna paterna dei De Serio (che non l’hanno mai conosciuta), deceduta lavorando sugli stessi campi, nel 1958. Il caso della bracciante Paola Clemente, rimbombato su tutti i giornali, ripercorreva una cronaca fin troppo tollerata:  Paola era deceduta la mattina del 13 luglio 2015, sotto un tendone per l’acinellatura dell’uva, a causa dello stressante ritmo di lavoro, nelle campagne di Andria.

Se gli invisibili di Balestrini appartenevano alla classe media e al proletariato degli anni di piombo, ben organizzati e rivendicativi, questi invisibili rurali, galleggiano nella rizomatica subcultura, precipitando ancora più in basso del sottoproletariato per l’assoluta sottrazione dei principali diritti civili. Sostanzialmente sono dei losers, sottratti a qualsiasi tutela e legge, intrappolati in condizioni esistenziali che li condannano al fallimento e spesso alla morte e in balia dei soprusi e vessazioni nonché violenze dei caporali a cui sono sottomessi e navigano in uno spazio in-between di incondizionata anomia. Questi invisibili, comunemente definiti scarti sociali, brulicano in questa società postmoderna e globalizzata che accetta la loro insostituibile forza-lavoro e il loro esecrabile sfruttamento in nero ma si esenta dalla loro tutela e sicurezza.

 

È questa la costellazione umana che Spaccapietre delinea, in un racconto che zigzaga tra l’intimità psichica, la complicità incantata dei due personaggi principali e l’inferno esistenziale a cui soggiacciono. In questo landscape, il film (girato interamente in Puglia) è un gioiello di immaginazione visiva, fluidificandosi tra le sequenze abbaglianti in esterno, dalle luminosità quasi divisioniste (come nella sequenza della cava di pietra o del bagno al mare) per restringersi nelle sequenze di interni dalle fioche luminescenze secentesche (la baracca dove vivono i due protagonisti) fino all’oscurità, psichica e quasi onirica, di un finale imprevedibile e catartico.

Sostengono i gemelli: Per le scelte cromatiche, una delle ispirazioni del film è stata un quadro di Courbet, Gli spaccapietre. Più che per i colori, ci interessava il livello iconografico: ci sono un uomo e un ragazzino, uno vicino all’altro, che picconano il terreno cercando di spaccare delle pietre e sembra quasi che l’orizzonte sia occupato dai loro corpi, c’è quasi uno scambio tra corpo e paesaggio. Ci piaceva l’idea dei lavoratori assoluti e così abbiamo analizzato meglio il tipo di colore di questa specie di realismo di Courbet. Alla fine abbiamo deciso di mantenere una gradazione dal giallo al blu che s’incarna in questa specie di color mostarda che torna sia negli ambienti con luce artificiale sia in quelli con luce naturale. 

È un film sulla psichicità dello sguardo, sulla sua valenza simbolica per meglio dire. Lo sguardo anomalo di Giuseppe, dall’occhio vitreo (scheggiato nella cava) che gli permette di vedere oltre il visibile.  Ed è la depistante sequenza iniziale,  capovolta e rabdomantica, che indirizza subito ad una contro-storia da ricucire insieme alle immagini deseriane. Malia e sdegno si rincorrono, facendo partecipare emotivamente lo spettatore, per poi sospingerlo per tutto il film verso un climax di ansia empatica avvolgente che corre sul filo degli eventi. I De Serio manipolano una materia filmica cruda e quasi insopportabile ma la accarezzano, senza affondare la lama nella sua brutalità. Lasciano che sia l’immaginazione dello spettatore a richiudere il cerchio (come nella sequenza della “doccia” alla inerme bracciante, un atto di sadismo padronale  e di assoggettamento del corpo femminile). La delicatezza del tocco dei gemelli non si disgiunge dalla crudeltà del racconto che sposta il registro narrativo dal melò al noir per deviare nello splatter in un montaggio sincopato e perfetto.  Troppo facile etichettarlo come cinema di denuncia, è altresì un cinema du réel reimmaginato, tra verità e sogno, che scende negli inferi del globo, per filmarne le essenze, le porosità, le psicologie e le empatie, poiché come Jean Luc Godard sosteneva: Nel cinema, come nella vita, non c’è nulla di segreto, nulla da chiarire, bisogna solo vivere e filmare.

C’è del sortilegio e dell’ignominia, del meraviglioso e del raccapricciante in questo Spaccapietre che è lo specchio psicotico della nostra realtà ed nient’altro che cinema, finalmente!

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