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Pelléas e Mélisande: musica da vedere, danza da ascoltare
Danza
È un poema visivo, corporeo, sonoro, dell’effimero dell’amore. Della sua forza distruttrice. È una schermografia trasfigurata della passione della carne e del cuore quando impossibilitati a coesistere. È, ancora, l’eterno tema di Eros e Thanatos. La fiaba Pelléas e Mélisande (rivisitazione dell’antico mito di Tristano e Isotta) suggella in bellezza il progetto triennale Poiesis che i coreografi Abbondanza/Bertoni hanno consacrato alla musica, facendo ora incontrare Venere e Marte, il maschile e il femminile, l’amore e la morte. Sulle note di Schönberg prende vita il dramma simbolista di Maurice Maeterlinck (1892), che narra la passione proibita tra i due amanti, il cui rapporto è ostacolato dal marito di Mélisande, Golaud, fratellastro dello stesso Pelléas, uomo geloso e possessivo che non esiterà a uccidere pur di ristabilire un’ipotetica unità famigliare ormai inesorabilmente perduta. Come in La morte e la fanciulla sulla melodia di Schubert, e in Erectus sulla partitura jazz di Charles Mingus, anche in Pelléas e Mélisande, (prima assoluta al Cantiere Florida di Firenze) con un’altra differente pregnanza poetica, la musica fa da motivo trainante della scrittura coreografica, in cui i corpi dei danzatori sono corpi musicali sollecitati dalle note. Con questa trilogia giunta a compimento, la storica coppia Abbondanza/Bertoni, autori di un peculiare teatrodanza che ha fatto del racconto il punto di partenza di una gestualità in movimento derivata dall’ascolto, realizzano un intenso percorso di sottrazione narrativa che esula dal descrittivismo a favore di una pura danza, dalla cifra astratta e fortemente evocativa. In sintesi: musica da vedere, danza da ascoltare.

foto di Simone Cargnoni
Con un vocabolario semplice ma dosatissimo si rende leggibile la musica di Schönberg, dai richiami wagneriani, facendo del gesto l’estensione fisica del suono. Con un affondo ancor più onirico lo spettacolo si snoda su un doppio livello narrativo/evocativo utilizzando, contemporaneamente all’azione danzata, il linguaggio cinematografico. Il grande schermo che occupa l’intero boccascena funge da filtro della mente dei personaggi. Li vediamo muoversi dietro quel velo sul quale si addensa un flusso d’immagini. Sono corpi, occhi, e volti ingranditi dipinti di biacca poi indurita e sgretolata; sono incursioni, col variare della messa a fuoco, sui profili dei tre protagonisti; sono fotografie di fratelli da piccoli, bruciate da una mano vendicativa. Sono, ancora, alberi mossi dal vento; radici nodose e di terra; cieli notturni e nubi scure che si addensano; onde marine quiete o tempestose, e rivoli da dove emerge a pelo d’acqua una donna. A imprimere un forte segno simbolico sono altre immagini con tre elementi ricorrenti. All’inizio tre melograni, posti su una candida tovaglia, che cominciano a sgocciolare il loro succo – presagio del sangue che scorrerà –; poi tre pesci geometricamente disposti in orizzontale, uno dei quali, ancora vivo, guizzerà come impazzito; lo stesso, quindi, nel mezzo di due rami secchi. L’inquietante metafora di perdizione, di esistenze destinate a soccombere, trova un rimando plastico, materico e pittorico nelle posture che assumono i tre danzatori, nei passi, negli slanci e nei sussulti con la fatica di procedere nella notte interiore; nello sguardo che scorre dall’uno all’altro o che va di là della scena; nel restare fermi in attesa e nel fremere disarticolato di una gestualità fuori dal tempo. Il tumulto emozionale scatenato nei corpi che, singolarmente e insieme, interloquiscono con le note musicali sulle quali è stata rigorosamente modellata la coreografia, apre alla verità delle presenze, che generano forme abitate dal mistero della condizione umana. C’è, in quegli amanti che si rapiscono e si sottraggono, che si cercano e si dividono, un respiro di desolazione e di abbandono, lo stordimento che dà il tradire ed essere traditi. Di ciascuno, e insieme, è peculiare ed energico il movimento. Scalpitante, sghembo, dinoccolante, nervoso; di ampie aperture di braccia che sorreggono, rifuggono, stringono, lottano; di gambe in ginocchio, o che a terra intrecciano e imprigionano; di piccoli passi, di rotolamenti e prese a testa in giù; di battiti di mano e teste reclinate sul petto dell’altro. Sempre in mezzo tra la coppia (i bravissimi Eleonora Chiocchini e Cristian Cucco), la fisicità di Michele Abbondanza – il rude Golaud – irrompe nello spazio d’amore ferito, fino al cupo rumore di un vento gelido, e al gesto che squarcia lo schermo coprendo i corpi morti degli amanti. Un finale che suggella un Pelléas e Mélisande di seducente bellezza.
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