15 gennaio 2010

essai_opinioni Avatar vs Antichrist

 
Esce oggi nelle sale italiane l’ultima megaproduzione di Hollywood: il già mitico Avatar di James Cameron. Campione d’incassi in poche settimane dall’uscita nei cinema americani, si dice che cambierà la storia della settima arte. Intanto nei sotterranei del MoMA è in programma una pellicola di ben diverso “posizionamento”. È l’Anticristo di Lars von Trier...

di

La sfida, se mai fosse possibile, sarebbe ridicola. Eppure
il cinema, giunto oggi alla svolta, si potrebbe meglio definire usando proprio
come termini di paragone due entità agli antipodi. Si tratta di Avatar di James Cameron (da oggi nelle sale italiane) e di
Antichrist di Lars
von Trier
(presentato
a Cannes 2009).
Acclamato come punto di non ritorno della storia del
cinema, grazie al suo effetto davvero speciale (la terza dimensione, che la
Disney annuncia anche in film come l’Alice di Tim Burton), Avatar è una megaproduzione da 450 milioni di dollari che sta
fruttando già oltre il bilione in sole tre settimane dall’uscita, finendo al
primo posto per velocità tra i cinque film che hanno raggiunto la mitica cifra
“paperonesca”. Numeri di questo genere possono chiarire cosa sia il cinema
oggi, più di molte definizioni “estetiche”: è la prima industria (statunitense)
per fatturato e resta lo strumento principale di colonizzazione
dell’immaginario (almeno) occidentale. Somme utili a costruire grattacieli come
quello del New York Times firmato da Renzo Piano vengono investite perché fruttino
più del doppio nel giro di tre settimane. È l’industria culturale che, nel
pieno della propria maturità, annuncia nuove frontiere da esplorare, nuovi
confini da oltrepassare.
Come un pioniere del Far West, Cameron ha costruito un
film-ponte che lancia messaggi ovunque. Ma per farlo deve tornare alle origini
della storia degli Usa, a quel debito culturale che forse è ora giunto il
momento di riconoscere nei confronti dei nativi: gli indiani d’America. La
storia è quasi una favola. Prende a prestito internet come paradigma per
immaginare un pianeta (Pandora) che risulta più vivo di Gaia; un eden in cui la
natura è connessa ai propri abitanti attraverso sinapsi.
Una scena tratta dall'Antichrist di Lars von Trier
I fratelli Wachowski lo avrebbero fatto in altro modo, ma anche loro come
Cameron avrebbero unito blockbuster e cinema “alto”. Avatar ritorna al topos della lotta agli indiani per dire
che avevano ragione loro e che tutto quello spiritualismo animista potrebbe
essere una realtà. Per dirlo ha bisogno di costruire un paradigma
“materialista” (fatto di alberi che parlano e fiori che si illuminano) ma alla
fine il messaggio passa e forse la storicità di questo film, più che nelle tre
dimensioni, risiede nel cambio di prospettiva che Hollywood compie a 180 gradi,
affondando lo stereotipo patriottico e narrando di Marines divenuti mercenari
al soldo di spietate (quanto indefinite) corporation del business minerario.
Agli antipodi, l’ultima fatica (è il caso di dirlo) di
Lars von Trier viene programmata nel cinema sotterraneo del MoMA, di fronte a
un pubblico ristretto di esigenti sostenitori del padre di Dogma95. La prima scena è di quelle che
restano. L’aria del Rinaldo di Händel (Lascia ch’io pianga) accompagna una tragedia familiare narrata usando
un amplesso, un orsacchiotto Teddy Bear e una lavatrice. Von Trier è di un
rigore assoluto, pasoliniano, seppur punta alla seduzione con movimenti di
camera che alla fine fanno pensare al Nouveau Roman di Alain Robbe-Grillet tradotto in uno slow motion esasperato quanto efficace (il
videoclip qui contamina).
Poi, come già accadeva nel geniale Dogville, ha inizio la vivisezione di un
mondo (in questo caso domestico) che si sfalda e di una vita di coppia che
diventa sempre più conflittuale. “L’enfer c’est les autres”, affermava Sartre in un accesso
di esistenzialismo dark che emetteva una sentenza definitiva sulla nostra
natura di esseri sociali. Lars von Trier è colui che più di altri ha tradotto
questa massima in un cinema che trova in Antichrist un nuovo autentico punto di
sfondamento, una pellicola pioneristica ma in un senso del tutto opposto
rispetto alle intenzioni di Cameron. Uno degli avatar protagonisti del film di James CameronQui, il “lavoro dell’attore” diventa
determinante, esponendosi come autentico gioco tra personalità reale e “avatar”
filmico. Willem Defoe e Charlotte Gainsbourg (migliore attrice a Cannes 2009)
sono chiamati a tracimare la propria esperienza di recitanti e diventare parte
di un “gioco al massacro” in cui gli “effetti speciali” (incredibilmente usati
da Trier con una radicalità genitale il cui unico vero precedente è l’occhio
“rasoiato” di Un chien andalou di Luis Buñuel) diventano parte integrante e indispensabile di una esperienza
cinematografica (del tutto antitetica a quella offerta da Cameron) che
travalica i canoni dell’intrattenimento per diventare qualcosa di diverso: un fenomeno,
fornito di dignità pari a quella di una passeggiata nel bosco o di una cena
romantica che si conclude in litigio.
Per far ciò, von Trier chiama a raccolta elementi
disparati: da Freud (suo feticcio personale, anche per via della depressione
che lo ha colpito nel 2007) a Ingmar Bergman e August Strindberg; dalle
immagini più suggestive di Gregory Crewdson (che pare esser stato
“saccheggiato” dal genio danese) alle atmosfere sinistre di David Lynch. Nel suo procedere, la storia
precipita in una serie di eventi sempre più raccapriccianti, in cui lo
spettatore è chiamato a uno sdoppiamento schizoide tra colui che segue la
storia (degli avatar) e colui che si domanda a ogni passo quale sia il limite
degli attori reali. Fino alle scene finali, scioccanti e umanamente “blasfeme”,
che includono una eiaculazione di sangue e una autoinfibulazione.
Se gli effetti speciali sono “innocenti” (come in un film
di Tinto Brass),
il senso della storia diventa sempre più di quelli che repellono. Una parte
minima del pubblico abbandona la sala prima della fine, ma i più restano,
affascinati da questa traduzione dell’apocalisse in termini domestici, in cui
la relazione di coppia si trasforma in una metafora gigantesca e lo spauracchio
biblico in una farsa che mette a nudo verità profonde dell’essere umano.
Uscendo dalle sale dopo aver visto i due film, è possibile
fare un confronto tra il Golia hollywoodiano di Cameron, ultima frontiera di un
intrattenimento che si fa messaggio ecologista dalla profonda morale (in un
mondo perfetto, però, parte dei proventi dovrebbero andare ai veri “autori” del
soggetto cinematografico: gli indiani d’America, segregati nelle riserve e trasformati
in artigiani per turisti, deprivati della propria filosofia) e il Davide del
cinema “indipendente” (budget: 11 milioni di dollari), destinato a un pubblico
d’élite che però troverà arduo seguire un cinema che usa lo shock visivo con un
vigore inusitato e quasi a discapito del senso ultimo, pur di farsi valere come
esperienza di tutto rispetto e non come puro passatempo culturale.
Il celeberrimo occhio di Un chien andalou
Il pubblico ha già decretato il vincitore: qui non ci sono
pietre e fionde a scombinare la Storia. Hollywood proseguirà con le
megaproduzioni, incoraggiata da risultati che dichiarano come il cinema (quello
su grande schermo) nell’era dell’home theater non sia morto, ma probabilmente
in via di trasformazione verso un gigantismo che potrebbe relegare la
sperimentazione “indipendente” alle sale dei musei.

nicola davide angeame


la rubrica essai è diretta da christian caliandro

[exibart]


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